in Diario dal Mozambico

Da non dimenticare

Capita talvolta di trovarsi in posti che non l’avresti mai detto. Proprio tu lì, ma come hai fatto a finirci. Mistero tropicale.

Intanto però ci sei, ti guardi intorno e non puoi fare a meno di notare, nell’ordine, le calze giallo fosforescenti dell’ambasciatrice che saltano agli occhi dentro i mocassini neri senza tacco. La noia dei racconti del diplomatico Jeanqualcosa che ha fatto una vacanza in Mali sul cammello, ha dormito in tenda e già si crede Indiana Jones. Il francese vellutato del vicino di scrivania di Matthieu, di cui, oltre alla voce, ricordi solo che ha gli occhiali spessi e che lo preferisci all’ambasciatrice, quella dei calzini, che ha appena cominciato il discorso ufficiale e parla come se avesse l’apparecchio ai denti e un enorme ciupa-ciupa al cocco sotto la lingua. Lo spagnolo, compagno della stagista UNV, che fa il mantenuto e per fortuna sta in Mozambico, dice, almeno si diverte. Il Ministro degli Esteri, lungo lungo, secco secco, infilato in un vestito verde di acrilico cento per cento. Il responsabile della Cooperazione, che ti sfida a una partita a calcio. Ma proprio calcio?

Un cocktail, un giardino, una piscina, una villetta coloniale, un pezzetto di Esagono nel cuore dell’Africa, un non-luogo che potrebbe essere dovunque e da nessuna parte. Ti immagini dal di fuori, sorridi compiaciuta (sei donna di mondo e non l’avevi mai sospettato), tiri il fiato e pensi menomale che è finita.

Qualche giorno fa era San Valentino che qui è cosa seria e parecchio. Per l’occasione le vetrine dei negozi sfoderano le peggio cose. Onestamente più che sulla qualità si punta sulla quantità: la tazzina, con dentro il pupazzetto che tiene in bocca una rosa, in mano un cioccolatino e sulla testa un mini-cestino con frutta finta a forma di cuore. O, viceversa, il cesto di frutta finta, con dentro una tazzina a forma di cuore, una rosa che si apre e rivela un pupazzetto con la scritta “I love you” che ti offre un cioccolatino. L’ordine degli addendi varia a seconda dei gusti o disgusti, ma una legge non scritta obbliga, cascasse il mondo, alla presenza del cioccolato, di almeno un cuore (meglio se più di uno), di un pupazzetto e di una rosa. Ditelo con i fiori, purché sia kitch.

La sera, sulla città che cenava a lume di candela, è calato un romantico silenzio. Nè poteva essere altrimenti: Maputo, questa veranda sull’Oceano Indiano, è la città dei tramonti.

Sono qui da oltre un mese e ancora non mi sono abituata: ai neri con i capelli bianchi; ai tombini profondi che si aprono sotto i piedi mentre cammini tranquilla sui marciapiedi; alla mania di farti dei regali quando compri qualcosa (un mango, due banane, una manciata di anacardi); agli scarafaggi che incontro per le scale; all’aria condizionata nel cinema, che ci vorrebbe il maglione di lana; al carbone venduto per le strade; all’elettricità che si compra dal benzinaio; alla quantità di macchine che riescono a far entrare sul traghetto per Catembe; all’alba che arriva d’improvviso in camera e non ci sono le tende per farla stare fuori.

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