in Diario dal Mozambico

Abitudini e tradizioni

I frigoriferi delle case dei ricchi di Maputo vengono dal Sudafrica e hanno tutti la serratura. Giurin giuretta. Sono a prova di scasso, che tradotto in afrikaaner significa: a prova di empregada. Una classica trovata sudafricana. Della serie: toglietemi tutto, ma non la mia T-bone steak.

Il sudafricano che si incontra in Mozambico, che non è diverso da quello che si può incontrare in Lesotho o in Botzwana o in Swaziland, si muove come una lumaca, o una tartaruga gigante. Con la casa appresso. Stile carovana alla conquista del West. Una macchina iperaccessoriata con mega-ruote e vetri oscurati, un frigo contenente la scorta alimentare per un reggimento, una tenda a metà tra Mister Crocodile Dundee e un grattacielo californiano, sedie, lampade, generatori, robot da cucina, tinture per capelli, materassi ad acqua. Tutto, insomma.

Il bambino sudafricano spesso va scalzo (per via, suppongo, di quell’africano che viene dopo il sud) ma fa il bagno con la muta (per via, continuo a supporre, di quel sud che precede l’africano e, per dirla tutta, fa un mondo di differenza).

Il sudafricano medio attraversa l’Africa senza toccarla e senza farsi toccare, talmente è autosufficiente. La qual cosa mi sconcerta, a me che autosufficiente non lo sono mai stata per principio. Ho pure il sospetto che un simile atteggiamento, questa fiera estraneità mista a un’ostentata indifferenza nei confronti dell’altro, a queste latitudini faccia all’uomo bianco una pessima pubblicità.

Se ai mozambicani piacciono le feste – e su questo non ci piove – sembra che riservino una speciale predilezione per quelle ufficiali, meglio se nazionali, meglio ancora se cadono di giovedì. Condizione essenziale per poter sperare nella cosiddetta “tolerância”, che poi sarebbe una maniera molto elegante di chiamare il ponte. Per farla breve in Mozambico l’8 marzo non sembrava sufficiente. E allora è stato inventato il 7 di aprile, la festa della donna mozambicana. – Ma non ce l’avete, voi, la giornata della donna italiana? – fanno increduli. No che non ce l’abbiamo. Ovviamente il 7 aprile è un pretesto per iniziare le danze, perchè se c’è il giorno della donna mozambicana, questo va debitamente inserito nella settimana della donna mozambicana che, ça va sans dir, sta comodo comodo dentro al mese della donna mozambicana. Limpido come l’acqua Lete.

Dunque il magico giovedì 7 l’antropologo romano, che ha molto più l’aria dell’antropologo che del romano, mi ha portato a una celebrazione Makonde in un barrio di Maputo. Tanti bambini, tante donne tutte vestite in verde, con cappellino, visiera e volti tatuati. Nel mezzo una maschera tradizionale, Mapico, che balla e si dimena e nessuno può sapere chi c’è nascosto sotto. Gli altri uomini che assistono all’esibizione, anche se conoscono i passi, non possono neanche accennarli vagamente per far sapere che anche loro sono dei bravi ballerini. E’ assolutamente proibito: solo chi indossa la maschera ha il permesso di ballare. Mapico ha un aspetto orribile: la testa di legno è minacciosamente inespressiva, al collo una capulana che sembra un colletto vittoriano, il busto avvolto da corde e intarsiato di campanellini e palle di ferro, un gonnellino bianco che fa l’effetto del pannolino di una volta, una calzamaglia nera con tante pietruzze inserite ai lati delle gambe e fissate con un cordino. Mapico si muove frenetico al ritmo dei tamburi, i batuque, che gli uomini accordano avvicinando la pelle al fuoco in modo che il calore ne aumenti la tensione. Ogni temperatura produce un suono differente. Di tanto in tanto la maschera si ferma e si accascia affannata su uno spettatore nel tentativo di respirare. Deve essere una vera tortura stare lì sotto.

L’antropologo, che vive in Mozambico da tre anni e porta una fascia sulla testa tipo Mimi Aiuara, parla fluentemente Makonde con le persone, le quali prima sgranano gli occhi incredule guardandolo fisso e, subito dopo, con sorrisi entusiasti, lo invitano nel cerchio a ballare. La notte cade d’improvviso. Mapico si allontana nel buio con passo incerto. I tamburi lo seguono per un po’ prima di farsi silenzio.

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