in Diario dal Mozambico

Il mare che non c’è

Da qualche giorno Maputo ricorda Genova G8 e Avenida Maguiguana si è improvvisamente trasformata nella zona rossa. Le ronde dei nuovi chips mozambicani sono state introdotte dal Governo per meglio vigilare sui quartieri centrali e residenziali, ultimamente fatti oggetto di un numero preoccupante di rapine a mano armata, assalti e uccisioni. Seguendo con lo sguardo le moto di pattuglia, luccicanti e rumorose, guidate da poliziotti in perfetta tenuta antisommossa, Jovi mi racconta di quando, intorno alla metà degli anni Novanta, la città fu teatro di una vera e propria guerriglia urbana: street-gang, i Fighters e gli Skin Heads, si affrontavano quotidianamente per il controllo di pezzi di marciapiede e relativi traffici. Roba da Guerrieri della notte. E fortuna che a Maputo non c’è la metropolitana, dico io.

In questo allarmismo generalizzato c’è addirittura chi consiglia di non fermarsi ai semafori rossi per non correre il rischio che qualcuno sbuchi da un tombino derubandoti. Circolano poi improbabili leggende metropolitane su riti di iniziazione diabolici che prevedono lo smembramento di giovani donne ferme a fare benzina. Sarà. Ma vivere guardandomi continuamente alle spalle non mi si addice. E non solo perché a Maputo non ci sono i tombini, e questo è risaputo. Ma anche per via del codice della strada che è in me, una specie di daimon socratico che mi impedisce categoricamente simili infrazioni, ancorché antipanico. Ecco.

Agli incroci si incontrano due tipi di persone: i venditori autorizzati di ricariche telefoniche, tutti con le loro pettorine gialle con sopra scritto Giro, e gli spacciatori di marmitte e tergicristalli. Forse lavare la macchina è sembrato inutile.

Insieme ai poliziotti, agli omini Giro e ai meccanici ambulanti per la strada è piuttosto facile incontrare, soprattutto di domenica, le fedeli di una chiesa che qualcuno ha brillan-temente battezzato “Nossa igreja da padaria” (Nostra signora panettiera), a causa del buffo cappello bianco da pasticcere che le fedeli sono solite calzare con straordinaria nonchalance. La stessa che sfodera George. George è il direttore artistico della compagnia di danza di Milorho. Di solito comincia a fare lezione con una maglietta blu-banale, ma poi d’improvviso tu ti giri dopo uno di quei passi che ti estraggono i polmoni dalla cassa toracica e, come per magia, te lo ritrovi lì che piroetta per la sala con il suo body giallo canarino attillatissimo che fa molto Prince-anni-Ottanta. Ma lui si piace così.

Inhaca è un’isola al largo di Maputo. Ho preso il traghetto e ci sono andata per concedermi una giornata in spiaggia. Avevo il costume, l’asciugamano e persino la crema solare protezione 30, ma non è bastato. L’acqua del Grande Indico quel giorno aveva deciso di ritirarsi, lasciandosi dietro un fondale sabbioso su cui affondare i piedi e giocare alle orme. Nessuno era in grado di dirmi quando sarebbe ritornata e così, intorno a Inhaca, ho camminato per chilometri cercando il mare.

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