in Diario dal Mozambico

A spasso nel KwaZulu Natal

Ogni visita oltre confine me lo conferma. Il Sudafrica è un Paese schizofrenico: la pelle nera, il sangue boero e l’alito inglese a soffiargli sul collo. Tre persone chiuse dentro lo stesso corpo che a stento si rivolgono la parola. È l’Africa che sogna l’America. Che la insegue senza neanche domandarsi quale sarà il prezzo di questa corsa. Giri l’angolo dell’ennesimo Kentucky Fried Chicken e ti ritrovi sul lungomare di Durban, lattiginoso e indolente. Da un lato l’Holiday Inn di sempre e di dovunque, dall’altra l’Oceano. Uguale spiccicato a Miami, se non fosse che per tener d’occhio gli squali bianchi non c’è l’ombra di Pamela Anderson, e i baywatcher locali (uno a destra, uno a sinistra e uno al largo in canoa a scrutare l’orizzonte) ti costringono a fare il bagno in stretti corridoi di acqua dove la gente si ammassa urlante a saltare le onde. La location ideale per lo Squalo, Episodio sei. Du-du-du-duuum.

Per apprezzare l’Ushaka Marine World ci vorrebbe minimo minimo Marc Augé, a parlare di rovine della sur-modernità, di spazi standard del commercio muto, creati dall’uomo generico per l’uomo generico, possibilmente solvibile. Entità astratte replicabili all’infinito, in cui nulla è lasciato al caso. Dalla maglietta da pirata dei baristi al sushi con vista, dalla finta nave fantasma all’inclinazione dei corridoi tra un negozio e l’altro, ai giganteschi scudi simil-Zulu che incorniciano l’entrata. Prego entrino, i signori clienti, nell’universo del non-senso e dell’inautenticità ad annaspare in “bolle di immanenza”. Ma chi decide, alla fine, cosa è autentico e cosa non lo è?

Il Victoria Station Market invece sta lì a ricordare che dentro Durban c’è pure un pezzetto piuttosto orgoglioso (benché segregato) di India e Indianità. Il ricordo di Gandhi giovane combattente per i diritti civili, il tè macchiato con il latte che lascia il segno sui tavoli, le camicie anni Settanta con il colletto lungo, le torte a 5 piani di panna e polistirolo, la carne alla brace mangiata a colazione, l’odore di spezie, di polvere e di andato a male, un senso ineffabile del denaro. “Fa due rand signorina. Ma di quelli argentati. Gli spiccioli di rame nel mio negozio non ce li voglio!”. Non ci avevo mai fatto caso, al colore del denaro.

Meno di 100 chilometri fuori Durban, sulla Battlefield Route che ripercorre le tappe delle guerre Zulu-Boere, sembra di nuovo Far West. Le donne hanno il viso dipinto di rosso e i tappi della coca-cola alle caviglie, gli uomini indossano i perizomi di pelo, i cartelli stradali minacciano leoni in attraversamento, e i ranger dei parchi naturali ti rivelano sottovoce i segreti della boscaglia. Il legno che se lo bruci ti fa venire le pustole, l’alloro che ti devi portar dietro quando sei in viaggio se no gli antenati non riescono ad attraversare i fiumi e starti accanto, l’amarula che serve per farci il liquore, i Galagoni, che ti seguono con lo sguardo atterrito, gli occhi acquosi e le orecchie a punta. Tu ascolti ostentando interesse, annusi ogni filo d’erba che ti viene avvicinato alla faccia, ascolti i rumori e i versi tendendo l’orecchio e degusti ogni frutto quale che ne sia la consistenza. Ma sotto sotto non ci riesci a fidarti di una tradizione e di una storia che, stantia e imbalsamata, ha l’aria di sopravvivere esclusivamente per rivendersi a un pubblico di boy scout e aspiranti fotografi. Capita allora che per ritrovare appartenenze e custodire ricordi ti ritrovi a parlare di mafia e pizzo ai bordi di una piscina che cambia colore. I luoghi si fanno stati d’animo e gli stati d’animo tornano paesaggi.

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