in Vivere altrove

Italia flessibile, genitori inossidabili

Di libri dedicati al lavoro «atipico» negli ultimi tempi ne sono usciti parecchi: Mi chiamo Roberta, ho trent’anni e guadagno 200 euro al mese, di Aldo Nove (Einaudi); Risorse umane di Angelo Ferracuti (Feltrinelli), Buon lavoro. 12 storie a tempo indeterminato, di Federico Platania (Fernandel). Un tempo li si sarebbe detti letteratura impegnata. Il tema scotta, gli scrittori trentenni lo sanno bene e hanno deciso di raccontarlo. Andrea Bajani è uno di loro. Anni 31, ha da poco pubblicato per Einaudi Mi spezzo ma non m’impiego. Guida di viaggio per lavoratori flessibili, che segue di poco Cordiali Saluti, appena tradotto in Francia. Bajani è stato lavoratore in nero, co.co.co, co.pro, lavoratore interinale e infine Partita Iva senza che la sostanza del suo impiego subisse mutamenti. Lo abbiamo incontrato a Torino, dove vive.

Come sei diventato «cantore» del precariato? Nel tuo ultimo libro racconti che l’idea è nata al seguito di Cordiali saluti, un romanzo che parlava di precarietà senza che ne avessi consapevolezza.

In effetti Cordiali saluti è stato interpretato come un libro, neanche sul lavoro, ma proprio sul precariato, e la cosa all’inizio mi ha sorpreso. Penso che derivasse soprattutto dalla mia età. In realtà si tratta semplicemente di un romanzo in cui un numero imprecisato di persone vengono licenziate in un periodo di «riorganizzazione» aziendale. Lì per lì non avevo fatto caso che la condizione descritta, di paura e profonda incertezza, corrispondesse perfettamente alla nostra, ovvero alla condizione dei precari o dei «parasubordinati».

E allora hai cominciato quello che descrivi come «un viaggio all’inferno».

Volevo uscire dallo stereotipo che da un lato vuole precario solo il ragazzo che lavora al call center (come se la condizione del precario, che è assolutamente trasversale, fosse invece circoscritta ai nuovi lavori) e dall’altro vede nel precariato una sorta di infantilismo di ritorno delle nuove generazioni, mammone e incapaci di andarsene di casa.

Il precario, prima di tutto, è inserito in un sistema composito, che condiziona i rapporti con la famiglia, le relazioni di coppia, la costruzione della propria personalità. Ho iniziato a girare l’Italia per mettere insieme le diverse tessere di questo mosaico, intervistando centinaia di lavoratori precari, ma anche i loro genitori, i «genitori a tempo indeterminato», e poi economisti, sociologi, giuslavoristi, sindacalisti, direttori di agenzie di lavoro temporaneo. Ho a lungo analizzato anche tutta la retorica della flessibilità che c’è in giro, a partire dagli slogan delle agenzie interinali (come «Oggi lavoro!» oppure «Non un lavoro qualsiasi, ma qualsiasi lavoro»), attraverso i quali si propaganda un’idea folle della precarietà.

Uno studio di settore, quasi.

Essendo un umanista di formazione, sono stato costretto a partire dai fondamenti. Mi sono fatto spiegare l’ABC dell’economia del lavoro e del diritto da esperti che mi hanno sillabato i concetti come fossi sordomuto, e poi sono passato alle componenti strutturali del processo che ha portato al passaggio dal lavoro stabile a quello precario. Non volevo semplificazioni. Nel frattempo, raccoglievo storie di vita, collezionavo esperienze, prospettive di lettura (il licenziato, ma anche il direttore del personale). Infine, ho cercato un linguaggio per comunicare questa realtà. Partendo dalla somiglianza tra le agenzie di viaggio e le agenzie di lavoro interinale, mi è venuta l’idea di costruire il libro come una guida di viaggi, e di considerare il lavoro temporaneo come una vacanza dalla disoccupazione. Mi premeva soprattutto attingere a codici linguistici e formali condivisi dalla mia generazione, volevo comunicare con i miei coetanei, con gli «atipici», perché soffriamo di una crisi di rappresentanza. Il sindacato è in difficoltà, non sa come aiutarci e noi non ci riconosciamo nel sindacato. Chi potrebbe combattere per far rispettare diritti che ormai non esistono più, che sono stati ufficialmente cancellati? Mettiamo che ti scade il contratto e tu vieni mandato a casa. Hai un bel andare a dire al sindacato che ti hanno licenziato. Il mercato del lavoro è talmente eroso dal punto di vista del diritto che i sindacati non hanno più alcuna possibilità di manovra e corrono il rischio di trasformarsi in semplici sportelli cui rivolgersi in caso di reclami.

«In Italia», scrivi, «c’è qualcuno ancora più precario dei lavoratori precari: i dati sui lavoratori precari». Sono davvero così opinabili?

Ancora non esistono dati oggettivi, non vengono forniti neanche da chi fa ricerca sociale e per questo molte delle discussioni in merito si riducono a scontri gladiatori tra uomini con la calcolatrice che si zittiscono vicendevolmente fornendo cifre che affrontano lo stesso argomento da due posizioni diverse, in modo che sia impossibile essere smentiti, ma altrettanto impossibile arrivare a una conclusione certa.

Il problema a mio avviso non è tanto sapere quanti sono o non sono gli atipici. Il vero problema è che non si dovrebbe ridurre il dibattito sul precariato e il lavoro flessibile a una questione di numeri.

Nel tuo libro ci sono i trentenni che vivono da studenti, in un mondo «di rate inaccessibili», ci sono i genitori, madri e padri «che non capiscono né vogliono capire cosa sta succedendo ai figli per i quali continuano, giorno dopo giorno, a erodere le pensioni accumulate negli anni», e ci sono pure i cinquantenni che perdono il lavoro che hanno fatto per tutta la vita.

Sui genitori e figli ho notato una cosa: penso si possa dire che, etimologicamente parlando, il proletariato è finito. Se c’è stata un’epoca in cui i figli erano l’unica risorsa dei genitori, oggi i figli hanno come unica risorsa i genitori. È un ribaltamento. Si potrebbe chiamarlo «parentariato».

Le storie che ho raccontato parlano della scomparsa di un mondo fuori moda di cui si è persa la memoria. Se tu chiedi a un giovane meno che trentenne che cosa sia la mutua, lui non saprà cosa rispondere. Quando scompaiono le parole, scompaiono le cose, ed allora è segno che è già troppo tardi. Chi un tempo apparteneva a quel mondo in via di estinzione e improvvisamente ne è stato espulso, è così anchilosato dalla stabilità che ha avuto, che fa una fatica enorme a comprendere ed adattarsi. L’operaio di una fabbrica fallita o de-localizzata si presenta nelle agenzie interinali e chiede solo di riavere il suo lavoro. Non cerca un impiego qualsiasi, ma il lavoro che ha sempre fatto e ha perduto.

Descrivi un universo di individui dal domani incerto, che spendono i loro soldi in inutili e costosissime formazioni post-universitarie per ritrovarsi poi in balia di lavori a singhiozzo, mai all’altezza delle aspettative. Lo fai con un’ironia salutarmente provocatoria, ma dai voce a persone che sembrano più impotenti e rassegnate che arrabbiate e combattive.

La rassegnazione e la sfiducia sono una delle componenti che più mi ha intristito. I ragazzi che ho intervistato ritenevano che la loro situazione fosse tutto sommato normale, perché comune a molti. Magari non piacevole, ma neanche degna di indignazione. Non esiste un allarme sociale. C’è da dire che ci sono delle differenze molto nette tra il Nord e il Sud. Al Nord, adattandoti e abbassando le aspettative, puoi passare da un lavoro all’altro. Al Sud, se sei fuori, diventi «uno scarto», per usare un’espressione di Bauman. Ti tagliano l’ossigeno. Mi raccontavano che in Sardegna i giovani ricominciano ad andare volontari nell’esercito, perché lo considerano l’unica fonte di sostentamento.

In Francia i ragazzi si sono mobilitati per molto meno.

E in piazza sono scesi i liceali. In Italia invece mi sento spesso dire che il mio libro non è tanto adatto agli studenti delle scuole superiori, che sono troppo giovani. Un atteggiamento che trovo piuttosto allarmante, oltreché improduttivo. Proprio da lì si dovrebbe cominciare a lavorare.

Sognare il contratto a tempo indeterminato ha ancora senso?

Pensare che la direzione unica sia quella del lavoro a tempo indeterminato è anacronistico e, da un certo punto di vista, controproducente, ma c’è un importante distinguo da fare. La precarietà, ovvero questo perenne senso di provvisorietà, scavalca l’ambito strettamente lavorativo, dilaga, e sta diventando in qualche modo un «orizzonte esistenziale». Prima ancora che ti strutturi per affrontare la situazione, questa è già cambiata, e viceversa, tanto più ti strutturi tanto più diventi rigido e inadatto a un mercato fluido. E allora le risposte sono l’Ikea, i voli low cost, tutto va bene, purché sia provvisorio e non costringa a fare progetti duraturi. Stiamo introiettando la precarietà, al punto che non sono pochi quelli che sarebbero disposti a tutto pur di non essere vincolati da un contratto a tempo indeterminato. Persone che non riescono più a pensarsi legate a una singola occupazione o a un singolo ambiente per tanto tempo. Questo succede tanto più, quanto più è alta la qualifica e quanto più rimaniamo nella sfera dei lavori intellettuali, dove la cosiddetta «flessibilità buona» tende a essere interpretata come un fattore di dinamismo e libertà di scelta. Il problema, in questi casi, è trovare il modo di gestire questa flessibilità in maniera più rispettosa delle persone e delle scelte di vita. Ma accanto a questa fascia di persone, c’è tutta una parte del mondo produttivo che del lavoro garantito ha un disperato bisogno e cui la stabilità del lavoro va garantita. Non puoi fare il fresatore tre mesi si e due mesi no.

Che previsioni ti senti di fare, o raccomandare?

Siamo in un momento delicato. Per fortuna, si comincia a discutere moltissimo di precariato, e il nuovo governo non potrà fare a meno di confrontarsi con la legge Biagi. Nell’Unione le posizioni non sono univoche, c’è chi vorrebbe solo ritoccare la legge 30 e chi vorrebbe abolirla. Per quanto mi riguarda l’abolirei, non ho nessun dubbio, ma vorrei che questo dibattito venisse preso in carica anche dai giovani e non rimanesse soltanto un fatto di apparati di partito e sindacati. Malauguratamente il pubblico a cui presento il mio libro è spesso composto da quarantenni, cinquantenni e sessantenni e da pochissimi ragazzi. È anche vero che se vivi in una condizione di perenne nevrosi, sommando lavori per arrivare alla fine del mese, finisce che perdi di vista tutto, i tuoi diritti, le persone, la famiglia, la politica. In fondo essere precario è un po’ come vivere senza il sistema simpatico. Chi si trova in questa condizione deve ordinare al cuore di battere e ai polmoni di respirare.

Pubblicato su «Vita non profit» il 30 giugno 2006

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