in Vivere altrove

Vivere altrove…Comunicazioni a distanza

viverealtrove_20060119.jpgDico, generazioni infinite di sociologi hanno trascorso ben più d’una domenica piovosa a raccontare di chi a Torino ci è arrivato con un Treno del Sud, un gommone, o nascosto in un tir di barbabietole e nessuno ha mai pensato di dedicare uno straccio di pensiero a quanti da Torino sono partiti, volenti o nolenti, magari con il TGV, magari in aereo, magari su una Uno talmente carica di olio e parmigiano, che meglio incrociare le dita e sperare che al di là delle Alpi i doganieri svizzeri stiano dormendo.

Nessun emigrato immagina alla partenza la portata del suo passo. E a ogni ritorno scoprirà quanto poco sappiano, coloro che restano, di ciò che capita a quanti sono partiti. Ti hanno detto che oggi, con le moderne tecnologie della comunicazione, l’estero non esiste più. Ebbene, si sbagliavano. Shenghen o non Shenghen, ci sono i confini, le distanze, le assenze. Vallo a spiegare alla zietta settantenne come si invia una mail e provaci a costringere tua madre anche solo a pronunciare la parola «skype», prima di farla parlare «dentro il computer». Se sei fortunato, forse, riuscirai a ottenere che i tuoi acquistino una carta telefonica da dieci ore della Sisal, di quelle che devi digitare tipo diciassette numeri prima di comporre, prefisso escluso, quello del destinatario. E alla fine ti ritroverai a parlare per tutto il tempo con l’eco, come se vivessi in una grotta nascosta in fondo all’Oceano. «Ciao-ao-ao-ao pa’-pa’-pa’…».

Alcuni amici, evidentemente in lite con il sistema postale, hanno a lungo continuato a comunicare con la figlia in Israele inviandole dei fax. Insomma per farla breve è una battaglia persa. Sei a New York, la Grande Mela, capitale morale del mondo, ma parli con un torinese con la stessa frequenza con cui lo faresti se fossi sperduto nella foresta Amazzonica. Vivi a Ginevra, 270 chilometri da Corso Vittorio, e non fai che sentire la frase distratta «Quand’è che ripassi da queste parti?».

Per chi pacifico continua a vivere in «zona Crocetta», chi è partito diventa, immediatamente, un esule, un fuoriuscito, un avventuriero. Che vuol dire, in sostanza, che è inutile chiamarlo per l’aperitivo, tanto difficilmente riuscirà a venire.

Pubblicato su «Torinosette», «La Stampa», 25 gennaio 2007

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Commento

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20 Commenti

  1. Oggi mi sento cattivo…
    Trovo molto interessante leggere il punto di vista dell’emigrante italiano nel nuovo secolo. Però, lasciamelo dire, questa nostalgia di casa è provinciale, sarà forse che Torino è un paesotto, ma questo tono anni 50 un po’ mi disturba.
    E neppure metterei sullo stesso piano chi lascia la sua terra per fame e chi lascia un benessere per un altro benessere, maggiore, anche se “più per necessità che per desiderio”. Vivi pur sempre nel primo mondo, soprattutto da quando hai lasciato l’Italia…

  2. Caro Giovanni, ti rispondo, come penso il post richieda. Ma, giuro, non vorrei suonasse come una giustificazione. Non penso di dover difendere quello che scrivo. E tu giochi a fare l’acido sempre e dovunque, quindi non ne faccio certo un fatto personale. Uno legge (e deve essere libero di farlo), uno scrive (e deve essere libero di farlo, possibilmente non gratis). E per fortuna chi legge e chi scrive la pensano spesso in maniera differente. L’editore, quello pubblica. Si chiama comunicazione. Ciò premesso cerco di spiegarti. La rubrica è pensata per un inserto torinese della Stampa. Cosa c’è al mondo di più torinese di Torinosette, non riesco davvero ad immaginarlo. E’ dunque ai torinesi, come torinese, che mi rivolgo. Identify your audience è una delle golden rules del giornalista…La tua milanesità, forse, ti rende tutto più difficile.
    Noi a Torino siamo piuttosto provinciali e, spesso, riusciamo anche ad andarne fieri. D’altronde cosa è provincia? A Ginevra si parlano almeno cinque lingue sul bus, c’è l’Onu e la Banca Mondiale, eppure anche Ginevra è provincia.
    Tornando alla rubrica, l’ambizione sarebbe proprio di giocare su una città che nata provinciale e da qualche anno si lancia, con una certa imbranata ingenuità, verso l’Europa e il mondo. Certo questo passaggio da città-Fiat a “Capitale mondiale di praticamente tutto” vince e convince soprattutto l’amministrazione. Ma la “pelle” dei torinesi non è ancora cambiata del tutto. Nei costumi, nei comportamenti personali, nelle abitudini, nelle priorità. Chissà poi se è cambiare che deve. Ah, dimenticavo, noi torinesi siamo anche piuttosto conservatori, anche se ci piace pensare che un giorno o l’altro faremo la rivoluzione. Dunque ci pretendiamo international a tutti i costi, ma ancora non telefoniamo oltre frontiera, perché è troppo lontano. Il tono anni Cinquanta è invece una specie di dedica al libro cui la rubrica deve l’anima. “Vivere altrove” di Marisa Fenoglio. Che cinquant’anni fa scriveva cose che chi se ne va di casa continua a pensare. Perché quella dell’emigrante, io penso, è una condizione comune a chiunque lascia il proprio paese, quali che siano le ragioni che lo inducono a farlo. Raccontare e studiare la cosiddetta «diaspora intellettuale» è senz’altro molto meno cool che raccontare dei profughi e rifugiati di guerra. Lungi da me confrontare sofferenze e ferite. Però, giornalisticamente parlando, penso siano due faccie della stessa medaglia.
    La nostalgia, poi, la trovi patetica? Io no davvero.

  3. Per quanto l’articolo sia bello, divertente, “comprensibile”, “condivisibile” e ben scritto…
    ideologicamente è tristissimo.
    Come deciderai chi è “torinese”?

  4. Se mi permettete rispondo alla domanda “Come deciderai chi è “torinese”?” Non è Irene che lo decide. Chi legge ed è nato e vissuto a Torino ma adesso vive altrove si riconoscerà. E non parlo solo di chi è torinese da generazioni. E’ una cosa sentita anche dai figli di chi è emigrato dal Sud cinquant’anni fa e non è certo piemontese doc. L’essere nato in questa città ed averla respirata tutti i giorni per anni è una cosa che non va via molto facilmente. Quando ho letto il primo articolo di Irene su Torinosette ho provato un brivido: era come se quelle parole fossero le mie, come se mi avesse letto nei pensieri.

  5. Ma saranno tutti così a Milano? Perchè non possono comprendere l’attaccamento che si può avere con la propria città? Perchè si diventa subito “provinciali” appena si mostra un sentimento d’affezione per vicoli, piazze, viali e palazzi? Devo dire che un’idea un po’ cattivella mi suggerisce questo: non apprezzano perchè non hanno nulla da apprezzare.. voglio dire, Milano.. cosa può offrire a parte le donne-scheletro impellicciate che non fanno altro che divorare vetrine versace, DG, cavalli, disel..
    Io, torinese di nascita, e pure torinese di vita, vorrei tanto poter partire. Vorrei anche io poter provare quella sottile sofferenza “provinciale”. Stufa della nostalgia per i tempi andati vorrei provare nostalgia per i luoghi andati, perchè se nel passato non ci è ancora concesso andare, nei luoghi si può sempre tornare. E credo che non ci sia nulla di più bello del tornare.

  6. wow.. il dibattito!
    Piacevole almeno quanto inatteso.
    In realtà la dimensione “torinese”, che è la mia per nascita e per affetti, non vuole essere una dimensione “contro”. Ok tra torinesi e milanesi c’è una faida ormai millenaria, ma non è davvero questo il punto.
    Ieri mi ha scritto Marisa Fenoglio, che è l’autrice del libro da cui la rubrica ha preso vita. Scrive e si dice commossa per il fatto che anche per le “generazioni di adesso l’altrove esiste e non è sopprimibile”. Io non ci trovo assolutamente niente di triste, cara iolanda. E’ un omaggio, piu’ che altro, e un tentativo più o meno serio di raccontare le vite di chi è parito. Non è triste o allegro, essere partiti. E’ semplicemente un dato di fatto che io cerco di descrivere. L’altrove è una dimensione filosofica, più che altro. Che poi io tenga una rubrica su un inserto torinese che solo i torinesi leggono direi che chiarisce i contorni del progetto tagliando la testa al toro. “Chi decide chi sono i torinesi?” Mi verrebbe da rispondere: io non ho nessuna intenzione di decidere chi sono i torinesi. Mi limiterò semplicemente a decidere di quali torinesi parlare e, soprattutto, parlerò di me. Apparentemente la cosa sembra funzionare…

  7. Devo aver scritto delle banalità aberranti per essere stata messa sotto il titolo di “faida millenaria”! Accidenti.. per fortuna che sono sotto anonimato! Dico ancora una cosa e poi recupero l’ancora e salpo.. Credo di essermi fatta trascinare un po’ troppo e ora mi correggo: amo Torino ma non ho mai detto di amare i torinesi. Nel mio precedente commeno volevo solo dire questo: mi stupisco della freddezza di certe persone. Ma in effetti possono essere di Milano come di Torino.. ecco di Roma no di certo! (o no! così forse ho di nuovo banalizzato il tutto!!??).
    adieau!

  8. Caro Giovanni Pensa,
    se la Irene ci ha nostalgia, lasciala avere nostalgia, mica bisogna essere minatori italiani a Marcinelle per avere dei sentimenti, no?

  9. Sì sono d’accordo con Mariano, perché anch’io che faccio il minatore credo di non avere sentimenti.

  10. Faccio solo notare, in questo clima un po’ surreale, che ho parlato solo di “nostalgia di casa”, nel senso di città e in special modo (questo non lo dico io, ma Irene) di Torino. Non sono certo contrario alle nostalgie, anzi; però mi sono stupito che quelle raccontate fossero le stesse, vecchie nostalgie, di altre generazioni.
    Penso che nel frattempo il mondo è cambiato, alcuni impedimenti (di tempo, di distanza, di trasporto, di comunicazione, per dire) sono stati limati, e che le generazioni attuali che lasciano l’Italia siano quasi vincitrici (è l’Italia che le “perde”, e questo è grave) rispetto alle perdenti che arrivano qui o che da qui sono partite 50 anni fa.
    Poi, se volete darmi del freddo milanese, fate pure. Sbagliate, in modo provinciale, e questo è un fatto. Con permesso che ho un ape con Cavalli e D&G, fa presto oh mia donna-scheletro che facciamo tardi…

  11. e chi potrebbe avere nostalgia di milano nel mondo? a parte rolando?

  12. Evviva il dibbattito!
    In quanto neo-milanese, ex-torinese ed ex-di-n’altro-paro-de-città, mi permetto di osservare che non si ha nostalgia di uno spazio in quanto tale, ma delle relazioni che si sono avute con quello e i suoi abitanti. In questo senso provo nostalgia per Torino perchè ci ho abitato “bene”, mi ci sono trovato e ho fatto molte esperienze. Ma lo stesso vale (varrà) per Milano quando la lascerò nuovamente o per le altre città in cui ho vissuto. Insomma, smettiamola con la solita diatriba Torino-Milano (che palle). Che poi il testo di Irene sia molto “torinese”, sono d’accordo…..in fondo le consiglierei di insistere con i suoi intervistati non tanto su quello che credono di aver lasciato a Torino ma su quello che hanno trovato altrove e che a Torino proprio non c’era.
    Raggiungo Giovanni all’ape e poi tutti all’Hollywood (o si va al Plastic?)

    Giovanni (dimenticavo: qui a Milano ci chiamiamo tutti “Giovanni”, anzi, “Il Giovanni”)

  13. No, dai, continuiamo con la diatriba Torino-Milano.
    A me Milano mi fa cagare.

  14. Secondo me è interessantissima la diatriba Torino-Milano. Io voto Milano. Ci sono le belle ragazze e ci sono Dolce e Gabbana pure.

  15. Mah, venendo a visitare questo sito tutto mi sarei aspettato tranne una diatriba sull’asse Torino-Milano.
    Trovo che gli argomenti di cui scrive Irene siano condivisibili dalla categoria generale dell’italiano all’estero, che sia torinese o no.

    Per Giovanni: è in effetti curioso ma vero che l’italiano all’estero ritrova certe nostalgie anni 50.

    E brava Irene!
    Ho qualche idea da suggerirti per i prossimi articoli, ma di questo possiamo parlare offline.

    Saluti.

  16. Non so perché ma da qualche giorno Mappy dice che Milano è in Piedmont… mettendo (mai troppo prematuramente) fine alla nostra “diatriba”…