in Vivere altrove

Israele e l’espulsione silenziosa

h_logo1.jpgEnaya Samara ha 56 anni ed è un’americana di origini palestinesi. Per 31 anni ha vissuto a Ramallah con suo marito Adel e i suoi due bambini. Per 31 anni, ogni tre mesi, ha lasciato il Paese per rinnovare il visto turistico, in attesa di un permesso di soggiorno permanente. Il 26 maggio 2006, dopo più di 120 viaggi oltre frontiera, in Giordania soprattutto, Enaya si è vista d’improvviso negare l’ingresso nei Territori occupati. Per nove mesi non è rientrata a casa. Fino al 23 febbraio 2007, quando il ministro degli Interni israeliano le ha concesso un nuovo visto turistico. Di tre mesi.

La storia di Enaya assomiglia in tutto e per tutto a quella di Anita Abdullah, nata Grossmann, una svizzera sposata da 28 anni a Ghassan, palestinese, anche lui residente a Ramallah. Il 1° dicembre il ministero degli Interni israeliano ha scritto sul passaporto di Anita «last permit» e lei, nel giro di due settimane, ha dovuto lasciare per sempre i territori occupati nei quali risiedeva da 12 anni. L’alternativa era restare, ma illegalmente, e vivere, come molti peraltro scelgono di fare, clandestina, nel timore costante di venir espulsa e bandita per sempre.

Sono oltre 10mila i palestinesi che possiedono un altro passaporto (per lo più svizzero, tedesco, francese, spagnolo, bulgaro o giordano) e circa 35mila gli americano-palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Molti si sono trasferiti all’indomani degli Accordi di Oslo del 1994, convinti che la pace avrebbe in fine prevalso.

Sharmila Devi sul Financial Times li ha definiti «l’avanguardia del futuro Stato palestinese», un pezzo di élite composta soprattutto da accademici, ricercatori, chirurghi o uomini d’affari, come Zahi Khoury, cittadino americano e titolare del franchising della Coca-Cola nei territori, che per lamentarsi del misero «one-week visa» ottenuto, ha scritto direttamente a Condoleeza Rice.

La condizione di queste famiglie a doppia nazionalità, precaria da sempre, si è gravemente deteriorata negli ultimi tempi, soprattutto dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni del marzo 2006. Per «ragioni di sicurezza» le autorità israeliane hanno modificato sul campo (ovvero senza emanare nuove leggi) la politica d’immigrazione, congelando tutte le procedure di ricongiungimento familiare e incominciando a centellinare anche i visti provvisori, per i quali occorre a volte versare una cauzione di 7mila dollari.

Il quotidiano israeliano Ha’aretz l’ha definita l’«espulsione silenziosa». Ma il silenzio da qualche tempo si è rotto. Dopo 13 anni di visti trimestrali e un «last permit» scritto in arabo, ebraico ed inglese sul passaporto, Sam Bahour, cittadino americano sposato ad una palestinese, padre di due figli e proprietario di due società di consulenza in Cisgiordania, ha deciso di promuovere la Campagna per il diritto di ingresso o rientro nei territori palestinesi occupati.

La questione, sollevata dai militanti di Amnesty International, ha quindi raggiunto la 70esima sessione del Cerd, il Comitato della Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale, riunitosi a Ginevra dal 19 febbraio al 9 marzo 2007. Amnesty non ha esitato a parlare di «giro di vite», «misure di sbarramento sproporzionate» e «leggi discriminatorie» non altrimenti presentabili che come «forma di punizione collettiva contro i palestinesi nei Territori».

Pubblicato su «Vita non profit magazine», 6 aprile 2007

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