in Vivere altrove

Vivere altrove… Mariti e mogli

viverealtrove_20060119.jpgAnno domini 2007. Ti sei trasferita da un anno e cominci, pian pianino, ad ambientarti. I fili, invisibili, che ti tengono allacciata a Torino strattonano di tanto in tanto. Mai avresti immaginato fino a che punto. Per fortuna ogni mattina il tuo cane ti ricorda che strade e sentieri hanno ormai preso il vostro odore. Soprattutto il suo.

La vita scorre su binari che acquistano, un giorno dopo l’altro, un’aria fin quasi familiare. Rimane il suono di una lingua che mastichi, ma ancora non sogni, e il riflesso di un’identità che modelli di continuo, in un instancabile mercanteggiare tra ciò che sei e ciò che il posto dove vivi si aspetta che tu sia. Francese. Tedesco. Texano.

Solo gli emigrati, ti ritrovi a pensare, navigando una vita intera tra due sponde, arrivano davvero a comprendere cosa significhi essere multiculturali. Il mondo predica integrazione, ma i singoli Stati non fanno che pretendere assimilazione, coltivando i gusti quasi fossero piantagioni di caffé.

Lo realizzi solo ora, ma all’estero hai perso molta della tua disinvolta spavalderia. È successo, ad esempio, quando ti hanno consegnato il permesso di soggiorno. Sul cartellino plastificato, accanto alla foto, come titolo hanno scritto «Epouse». Moglie. Grazie tante. Se ci mettevano bionda l’effetto sarebbe stato più o meno lo stesso. Sei lettere sufficienti a neutralizzare studi, e anni di formazioni e qualifiche post-universitarie. Non cittadina, non giornalista, ingegnere, medico o architetto. Non laureata o traduttrice. Tra i transalpini, tu sei, semplicemente, epouse. Leggi, ti disperi e incassi, pensando con affetto a tutti quelli come te, che sono partiti seguendo qualcuno o inseguendo qualcosa, e nel farlo sono stati costretti ad azzerare o riconsiderare, un poco o del tutto, il proprio passato.

A Baltimora Elisabetta, quando, dopo 80 giorni di attesa, ha finalmente potuto compilare i moduli per il rilascio del Social Security Number si è sentita chiedere se il suo «middle name» era Milan, ovvero la città dove le avevano rilasciato il visto. Parola di Irene Turin Amodei. Per gli amici: epouse.

Pubblicato su «La Stampa», venerdì 20 aprile 2007

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Commento

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  1. E’ che se scrivevano “championne du monde” 4 anni dopo te la facevano rifare.

    Ma non penso che sia normale avere “épouse” come titolo. Sulla mia carta d’identità italiana il mio stato civile è “stato libero”. Magari un domani ci scrivono “stato occupato” e ci mettono un semaforo.
    Mio padre una volta come segni particolari aveva “baffi”. Non ha potuto radersi per anni.

  2. Caro Alberto,
    anch’io sulla Carta d’Identità ho giornalista. E’ sul permesso di soggiorno che invece compare “epouse”. Ed, essendo frontalier, epouse risulta come “titre” per gli svizzeri e niente meno che come “qualité” per i francesi… no comment…