in Vivere altrove

Vivere altrove… e i reality show

viverealtrove_20060119.jpgLa televisione è, forse insieme alla radio, lo strumento più semplice ed immediato che un immigrato ha a disposizione per farsi un’idea del paese che lo ha accolto. Lo zapping, in fondo, è un po’ come spiare dal buco della serratura, intrufolarsi di soppiatto dalla veranda sul retro, far capolino dalla porta d’ingresso socchiusa. Piaccia o non piaccia, i programmi tv sono, in una certa misura, la radiografia di una nazione. Parziale certo, e di sicuro poco accurata, ma ugualmente illuminante. Contraddizioni, vanità, aspirazioni, genio, paure e istinti di un popolo vengono rigurgitati dagli schermi senza tante esitazioni. All’incauto spettatore non rimane che sguazzare in quel brodo primordiale, cercando, se ne ha voglia, di distillarne l’essenza.
Qualche tempo fa un amico economista in trasferta a Berkeley mi invitava a riflettere su una serie di reality shows trasmessi dalle emittenti americane. Tra le miriadi, mi segnalava, suppongo per la loro intrinseca intelligenza e finezza, quello sadico in cui “i partecipanti vengono umiliati e molestati dal loro capo. Tipo che devono andare ad una riunione in mutande, o spedire dei fax mentre il boss spara loro addosso con una pistola ad aria compressa…”. O quello ficcanaso che “prevede di invitare in studio una giovane mamma che ha dubbi sull’identità del padre di suo figlio. Sono presenti anche i potenziali papà e l’attuale fidanzato o marito…. In diretta viene annunciato il risultato del test del Dna…”. O, ancora, quello dalle ambizioni buoniste. “Si prende una famiglia povera e numerosa di un qualche sobborgo malfamato, si rade al suolo la casa davanti agli sguardi apprensivi di tutti i diretti interessati e poi la si ricostruisce più bella e più grande… seguono inevitabili pianti, sgorgano copiose lacrime di ringraziamento e il tutto si conclude con la promessa di ricominciare una nuova vita tutti insieme”. Carramba. Se tanto mi dà tanto, temo che anche un fuoriclasse come Obama avrà il suo bel da fare.

Pubblicato su “La Stampa“, venerdì 5 dicembre 2008.

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