in Vivere altrove

Tutti gli «expats» sono espatriati, non tutti gli espatriati sono «expat»

D’impulso sarei tentata di detestarli. Se non sapessi, nel profondo, che sotto uno strato superficiale di ostile diffidenza si annida, in realtà, un’ammirazione viscerale, un’invidia un po’ meschina e un timore quasi reverenziale. Tra di loro si chiamano «expats», che poi sta per espatriati. Salvo che per entrare a far parte del loro club esclusivo non basta vivere in un posto diverso dalla propria terra natia. In parole povere, non è sufficiente essere espatriato per essere un «expat». O detto altrimenti, se tutti gli «expats» sono espatriati, non tutti gli espatriati sono «expat». Donde l’idea del club esclusivo, cui non è dato iscriversi. La prima condizione per farne parte è infatti la provenienza. Di conseguenza, «expats » si nasce, non si diventa. Gli «expat» sono inglesi o americani o canadesi o australiani. In pratica, anglofoni. Altra caratteristica costitutiva degli «expats» è il marcato senso di responsabilità verso il prossimo, rigorosamente «expats» anche lui, che va metodicamente iniziato ai misteri dell’altrove, tramite la regolare consultazione di blog, libri, guide, epistolari, manuali, l’ascolto di trasmissioni radiofoniche, la partecipazione a forum comunitari e eventi aggregativi. Tutte occasioni per illustrare nei dettagli i pregi e i difetti della terra d’elezione, dal sistema scolastico alle abitudini alimentari, dalle condizioni climatiche alle danze popolari, dalle procedure fiscali, consolari e assicurative alle regole sportive.

Grazie a quest’affiliazione che ricorda il funzionamento delle vecchie società di mutuo soccorso o, anche, e forse di più ancora, i sistemi coloniali d’antan, gli «expats» non si limitano a traslocare, come il resto del mondo, ma, letteralmente, si insediano, stabilendo un efficace e capillare controllo del territorio, delle risorse (umane e non) e dei servizi. Alle volte, cederei volentieri un po’ del mistero e dell’avventura di noi, emigranti improvvisati, in cambio di un’ombra della rassicurante e rigida vita di un «expat» di professione.

Pubblicato su “La Stampa” il 23/7/2009.

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