in Vivere altrove

Siamo piante con le radici che hanno bisogno di terra

Vivere. Altrove. Da molto. Da poco. Per pochi mesi. Per qualche anno soltanto. Per sempre. La vita altrove costringe chi l’ha scelta, o chi l’ha subita, a fare il punto più spesso di quanto non accada agli altri. Dove sono capitato, cosa sto facendo qui, perché ci sono arrivato e come. Qual è il senso dell’andare, quale il senso del restare. Vale la pena. O no. Varrà la pena. Quando? Avevo un’alternativa?

La vita altrove è una pioggia gelata, ma anche una coperta calda. Dipende dai giorni e dalle stagioni. Perché vivere altrove significa cancellarsi un poco alla volta e reinventarsi, di continuo. Significa scegliere di perdere l’equilibrio e navigare a vista, quando non del tutto alla cieca. Finché non si siano individuati, nella nebbia di un mare sconosciuto, nuovi punti fermi. Nuove certezze cui ancorarsi. Perché, comunque la si voglia girare, siamo piante con le radici che hanno bisogno di terra. «Devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze», cantava Kavafis il poeta. Quasi ad incoraggiare il viaggio di noialtri.

Ma. Vivere altrove significa convivere con la nostalgia, parola che l’emigrante rispetta, teme e impara, a sue spese, a non deridere e ad usare con cautela. Significa rincorrere il ricordo una mattina e imporsi di dimenticarlo la mattina dopo, perché fa male. Significa accettare di adattarsi, di piegarsi, di contaminarsi, di compromettersi, sapendo che non sarà mai abbastanza. Siamo quel che siamo e, inevitabilmente, siamo anche il posto da cui veniamo. Anche se impariamo ad accettare di non esserci quasi mai, in quel posto. Di perdere compleanni, battesimi, grigliate, aperitivi, nascite, incidenti, operazioni, aperitivi e nuovi tagli di capelli di chi è restato. La vita altrove regalerà, col tempo, altrettante occasioni. Ovvio. La vita è generosa con chiunque abbia il coraggio di prenderla in mano. Basta convincersene, e ripeterlo ad alta voce, nei giorni di pioggia.

Pubblicato su “La Stampa” il 30/10/2009.

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Commento

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  1. Salve.
    Ad esordire con “ciao”, non conoscendoti (leggendoti da poco), mi pareva inopportuno.

    Sono un quarantenne di Torino, da circa un anno e mezzo trapiantato a Varsavia, nella veramente bella Polonia. Fuggito da un’italia di cui l’iniziale minuscola basti come commento, incensurato (è bene specificarlo), senza un soldo (è triste specificarlo) e con la sola forza economica della mia compagna, Polacca, con un buon lavoro qui.

    Questo tuo articolo è a dire poco toccante. Leggero forse, dolce, ma indubbiamente capace di “appoggiarsi” come una mano sulla spalla, e di farsi sentire presente.

    Concordo con tutto quello che hai scritto, e nonostante non rimpianga il suolo natio, ogni giorno sento come se un “cordone ombelicale” che mi lega a Torino, venisse strattonato e mi provochi delle fitte al respiro ed ai pensieri.

    Per fortuna, Varsavia è una città che si cura di me, che odiando il caldo, mi tiene sempre al fresco, proprio come adesso, che attanagliato dalla nostalgia della mia città, mi coccola con una leggera nevicata.

    Saluti e apolidi abbracci.

    R.

  2. ciao Irene,
    bellissimo post, grazie.

    probabilmente l’anno prossimo dovro’ decidere se seguire il moroso a Parigi (commento generale: Parigi! woooow!), per questo, questo post mi era necessario.
    grazie, grazie, grazie. 🙂