in Vivere altrove

La guerra che mi ero dimenticata di ricordare

Sarajevo, aprile 1992. 300 mila persone affluiscono nella capitale per manifestare a favore della pace. I tiratori scelti sparano sulla folla e l’assedio ha inizio. 1.427 giorni, 44 settimane. Quattro inverni. I più lunghi della moderna storia Europea. Due milioni e 200 mila persone, su una popolazione di poco più di 4 milioni, abbandonano le proprie case. Solo un milione e settantamila «rientreranno », stando ai dati, inverificabili, del ministero per i Diritti Umani e i Profughi. Sono le persone che hanno qualcosa o qualcuno da cui tornare, forse. Quelli che ci provano a resistere ai ricordi o quelli che, semplicemente, hanno deciso di vendere tutto per rinascere altrove. Numeri. 14.000 caschi blu. 74.000 sfollati.

E altri numeri ancora. 860 metri di lunghezza, un metro e 70 di altezza e larghezza: è il tunnel che gli assediati scavano sotto l’aeroporto della capitale per evacuare feriti, portare cibo e munizioni, sotto il tuono delle esplosioni e dei mortai, tra le rovine del quartiere di Hrasnica.

Sarajevo vent’anni dopo si è raccolta per ricordare quando la città esplose, le lancette degli orologi si fermarono e per quattro anni l’orrore batté il suo ritmo di morte. Lo ha fatto mettendo sulla Titova, la centralissima via Maresciallo Tito, dalla Fiamma Eterna alla moschea Ali Pašina, 11.541 sedie di plastica rossa, vuote, tante quanti sono stati i morti cittadini. 643 erano piccole, quelle dei bambini che da allora non ci sono più. Ancora numeri. In 1.400 hanno testimoniato, e le loro storie sono state raccolte in un nuovo museo: 5.000 metri quadrati in pieno centro città, diviso in 4 settori: Introduzione, Esperienza, Conoscenza, Sostenibilità.

Da dieci giorni i numeri di quella guerra «sotto casa», che mi ero dimenticata di ricordare, mi interrogano feroci sulla forza e sul senso dell’ identità. «Morire per Sarajevo» hanno scritto «è morire per una città aperta, che argomenta la vita in comune tra diversi». L’altro mondo possibile. Quelle sedie rosse sono lì a chiedersi cosa resta.

Pubblicato su “La Stampa” il 20/4/2012.

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