in Vivere altrove

Non solo ebola

Mentre le scuole e gli asili italiani, in preda a psicosi da contagio, sbarrano cancelli e portoni a qualsiasi scambio proveniente dal continente africano – senza neanche prendersi la briga di verificare se il paese d’origine sia, o meno, uno dei sei colpiti dall’epidemia di Ebola – l’Unione Europea conferisce il premio Sakharov per la libertà di pensiero, l’equivalente europeo del Nobel, a Denis Mukwege, «Le Docteur», un ginecologo che nel 1998 ha fondato il Panzi Hospital, sulle colline di Bukavu, in Congo, operando, in grembiule bianco e Crocs, donne, ragazze e bambine vittime di violenza sessuale. Il dottor Mukwege andrà a ritirare l’onorificenza a Strasburgo il prossimo 26 novembre. Sempre che Schultz non si lasci prendere dal panico anche lui, e  decida improvvisamente di cancellare la cerimonia.  O magari gli chieda un certificato medico prima di salire sul palco. Certo è che l’uomo che ripara le donne – per usare le parole della giornalista belga Colette Braeckman, che di recente gli ha dedicato una biografia –non si farà spaventare. Non dopo 16 anni di guerra. Non dopo 30 mila interventi su altrettante donne, bambine e ragazze vittime di orribili violenze e torture. Arriverà a Strasburgo – come Nelson Mandela, Kofi Annan e Aung San Suu Kyi prima di lui – e accetterà il premio con gratitudine, ringrazierà la platea con un largo sorriso, e poi, implacabile, comincerà la sua arringa.  Quella di chi cerca di scuotere le coscienze delle nazioni, incalzando i governi ad agire. Lo ha già fatto due anni fa, di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Di certo lo rifarà a Strasburgo. Perché le cose non sembrano molto cambiate e i numeri sono ancora terrificanti: 3645 donne, bambini e uomini stuprati e torturati in Congo tra gennaio 2010 e dicembre 2013. 3645 vittime, 187 condanne soltanto. «Come si può restare con le mani in mano senza fare niente? Davvero non capisco», si chiedeva allora Mukwege. E se lo chiederà di nuovo. Ma almeno il Parlamento europeo non gli ha chiuso il portone in faccia.

Pubblicato su “La Stampa”, 31 Ottobre 2014.

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