in Vivere altrove

Un cappello da tenere sempre in testa

La distanza. Per l’emigrato è come un fiume in piena da attraversare. Una parete da scalare. Una galleria lunga tanto che non se ne vede la fine. Con il passare degli anni diventa come un capo d’abbigliamento. Di quelli che riconosci nel cassetto anche se sono messi al rovescio. Per qualcuno è un cappello da tenere sempre in testa, per altri una canottiera da nascondere sotto strati di maglie e maglioni. Per altri ancora una sciarpa che protegge dalle intemperie, o un impermeabile di cerata, su cui far scivolare pensieri e preoccupazioni prima che finiscano in una pozzanghera.

Il più delle volte la distanza è un nodo in gola, che non sale né scende, ma sta lì, nel mezzo della trachea, o dell’esofago, insomma da quelle parti.

È l’attesa che si prolunga, l’assenza che non si riempie, il silenzio che rimbomba nelle orecchie.

Per un’ironia beffarda e crudele del destino, ci accorgiamo della distanza proprio quando siamo vicini. E mi correggano, nel caso, i torinesi emigrati rientrati in città per le feste. È quando siamo vicini infatti che la distanza ci appare davanti, più nitida e ingombrante che mai. Parete da scalare. Galleria. Silenzio.

E dire che riconosciamo disinvolti le strade della città, ritroviamo entusiasti volti amici, gusti e odori familiari, come fossero sempre stati là (o fossimo sempre stati lì). Riscopriamo rapidamente ciò che c’è di nuovo, archiviamo senza indugio ciò che è diventato vecchio. Uniamo frenetici i puntini, fiduciosi che alla fine un’immagine apparirà. Uniamo i puntini, alla ricerca di una continuità di cui giocoforza non siamo stati testimoni oculari. Ebbene sì. Viviamo nell’epoca della condivisione obbligatoria ed esibita di ogni momento, sia esso di gioia o di dolore, di ogni traguardo, o fallimento. Ma chi sta lontano, non importa quanto o perché, sa, forse più consapevolmente degli altri, che questa condivisione non è che una chimera. Una finzione. Un miraggio collettivo. La distanza è troppo intima per essere condivisa e se ne sta lì, spessa come un muro di cinta, a tracciare i confini di un altrove degli affetti e della mente cui, ironia anche questa, non apparterremo mai del tutto.

Pubblicato su “La Stampa”, 9 Gennaio 2015.

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