Lei è alta, magra, bionda e francese. Lui è alto, magro, biondo e californiano. Lui lavora a San Francisco, lei tra Ginevra e Parigi. Si sono sposati la scorsa estate, e da allora fanno quotidianamente i conti con gli arcani della politica migratoria statunitense, un complicato, e per certi versi sempre più oscuro algoritmo fatto di regole scritte, interpretazioni, cavilli, programmi che si avvereranno, forse, ma forse anche no. Dipende. Da cosa? In questo caso, – che a dirla proprio tutta è uno di quei casi in cui neanche pensavo ci fosse, un caso, – l’assegnazione della carta verde sarà solo questione di tempo e pazienza. A pesare sull’ingresso, l’espulsione o la permanenza di qualcuno su un territorio nazionale è invece, di norma, il colore del passaporto.
Cerchiamo di capirci: il piccolo Alan, tre anni, è morto sulla spiaggia di Bodrum nel tentativo di arrivare in Grecia perché, in quanto Curdo, non aveva il passaporto che gli avrebbe permesso di prendere l’aereo e raggiungere la zia parrucchiera a Vancouver.
Nessuno ama i passaporti, scrive Tim Harford in “50 cose che hanno fatto l’economia moderna”, un podcast della BBC poi diventato libro. Napoleone III li abolì nel 1860, considerandoli “un’invenzione opprimente, un imbarazzo e un ostacolo per il pacifico cittadino”. E non fu l’unico. Negli anni Novanta dell’Ottocento si poteva andare in America senza passaporto e pareva verosimile che questi ultimi sarebbero presto scomparsi.
In un mondo in cui soldi, informazioni e merci viaggiano da una parte all’altra del globo alla velocità della luce, il passaporto è invece tornato in auge come non mai, e funziona oggi come una specie di cancello, che si apre o si chiude, accordando o meno a qualcuno il privilegio – ma non dovrebbe essere un diritto? – di spostarsi da un posto all’altro e trasformando la casualità del luogo di nascita in una delle più grandi e tollerate ingiustizie del pianeta.
Pubblicato su La Stampa il 9/3/2018
(Credits: La foto dei passaporti viene dal sito della BBC)