L’avrete di certo notato. Se sei un inglese che vive in Kenya sei un “expat”. Se sei un norvegese che vive nelle Filippine sei un “expat”. Se sei un americano che vive in Sudafrica, un austriaco che vive in Australia, un francese che vive in Giappone, o un belga che vive in Messico, sei sempre, inequivocabilmente, un “expat”.
In base ad una definizione che direi più esistenziale che semantica, l’expat è bianco e caucasico. Egli non “migra”, tantomeno alla ricerca di un lavoro – altrimenti rischierebbe di finire nella categoria, non particolarmente popolare oggigiorno, di “migrante economico”. L’expat, lui (o lei), “parte in missione”. Che non vuol per forza dire che sarà direttore di un lebbrosario in Madagascar. L’expat parte in missione anche se va a lavorare per tre anni per la BMW a Singapore e ha una macchina di funzione e un appartamento in centro con parquet e terrazza. Perché l’esilio, pur temporaneo e dorato, è pur sempre esilio.
Ora, vien da chiedersi, chi decide del nostro status? Chi decide che l’ingegnere nucleare ucraina che in Italia fa la badante è una “migrante” e lo studente di dottorato di Padova che fa il cameriere a Parigi un “expat”? E ancora, si tratta di una condizione permanente o provvisoria? Si può “evolvere”? Come? Succede come per la bellezza, che dipende dall’occhio di chi guarda? Se davvero fosse così, mi permetto di consigliare una visita dall’oculista, perché è evidente che dobbiamo tutti cambiare le lenti degli occhiali, e di corsa.