in A scuola con Oliver

Il muggito del cane da salotto

I cani, quando amano, amano in modo costante, inalterabile, fino all’ultimo respiro. E questo attaccamento viscerale, unito al fatto che non sono in grado di percepire il trascorrere del tempo, spiega un certo numero di cose. Per esempio mette nella giusta prospettiva gli attacchi epilettichi di entusiasmo che vengono ad Oliver quando riapro la porta di casa dopo essere scesa al piano terra a ritirare la posta. Per lui in effetti l’espressione «fare le feste» è un ingannevole eufemismo. L’accoglienza che mi riserva, per rendere l’idea, sarebbe la stessa se tornassi dall’Alaska dopo otto anni. «Fingi indifferenza», mi hanno spiegato. «Cerca di fargli capire che il tuo andare e venire è una cosa normale. E, se esagera, digli con convinzione NO!». Tutto sta nella convinzione, suppongo…
Ci voleva il corso di obbedienza di base, comunque, per introdurre in casa delle regole. Adesso la maschera di saliva – trattamento di bellezza quotidiano contro i punti neri – si è magicamente tramutata in qualche composto e sobrio ululato di apprezzamento. Che dopo una dura giornata di lavoro tutto sommato fa pure piacere! Insomma diradata, almeno in parte, la nebbia che aleggiava sui misteri imperscrutabili della mente canina e corretti i principali errori educativi commessi finora (in assoluta buona fede) il nostro duetto funziona ora come un ingranaggio appena oliato. Unto, più che altro. Non mi fraintendete. Lessie rimane un eroe hollywodiano né più né meno di Tequila, e non è che d’improvviso Oliver si è messo a salvare le persone che annegano nel Po, a dare la caccia agli spacciatori e a sporcare nel vasino. Lui, alla fine della fiera, non ha cambiato mestiere. Sempre cane da salotto è. Qualche passeggiata, un po’ di giochi, il solito insistente e languido muggito durante i pasti e tanti (troppi) peli dappertutto. Sono io che ho fatto progressi, forse. Adesso so come prenderlo, so cosa è giusto pretendere da lui e in che modo far sì che mi capisca. Lo conosco meglio di chiunque altro, insomma. Un po’ come quella signora, durante il saggio di fine corso, che ad un certo punto, prima di cominciare un esercizio, ha disteso una coperta sul prato scusandosi che nessuno meglio di lei sapeva «quanto a Tobia l’umidità faccia male alle ossa!».

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