in Diario dal Mozambico

Tra le nuvole

Andare in Lesotho è un po’ come viaggiare nel tempo. Nel passato, per lo più. Diciamo all’incirca tra Alto e Basso Medioevo.

Il Lesotho è uno sputo di paese infilato dentro il Sudafrica e circondato dai monti. C’è un re, molto amato; una città, Maseru, che si finge capitale perché ci sono le macchine e le banche; una grande diga, che di nome fa Katze, e tanta, tantissima acqua, il che in questa parte di mondo è pur qualcosa. L’unica strada che ha l’ardire di addentrarsi nell’interno non è asfaltata e a un certo punto si ferma. Da lì in poi i mezzi di circolazione più diffusi sono i cavalli. L’impressione allora è quella di stare in una specie di Far West andino dove i saloon sono di latta e dentro non c’è il pianoforte.

I Bosotho, che sono gli abitanti del Lesotho e parlano il Sosotho (parola di lupetto!), più che cow-boys però sembrano dei piccoli puffi. Innanzitutto perché portano tutti il cappello: quello di paglia a punta, classico e tradizionale, oppure il passamontagna a righe che può essere indistintamente calzato fino in fondo lasciando una piccolissima fessura per gli occhi o, viceversa, infilato fino alla fronte, girato al contrario e penzolante da un lato, tipo “è Memole il nome mio, folletto sono io”. Il cappello è talmente onnipresente che ti chiedi se sia ormai diventato una specie di prolunga organica della testa. Poi c’è la coperta. Tutti, grandi e piccini, vanno in giro con delle grosse coperte colorate di lana avviluppate al corpo a mo’ di poncho e tenute chiuse sul petto da una grossa spilla da balia come quelle dei kilt scozzesi. Una volta queste coperte dovevano essere ricamate a mano con disegni tradizionali di vita quotidiana. Adesso sono fatte in Sudafrica e vendute dai cinesi, che non parlano una parola di Sosotho, ma hanno il pallino degli affari. Come è che si dice, occidentalizzazione del mondo? Anche se sono luride e bucate questa cosa delle coperte fa comunque un gran bell’effetto. Per non parlare degli stivali, che poi altro non sono che le classiche “galoche” di plastica (va molto il bianco) su cui rigorosamente vengono rimboccati dei calzettoni da calciatore, per lo più dei colori del Brasile, cioè verdi a righe gialle. L’insieme cappello-coperta-stivali è delizioso, l’aria da “scappato di casa” è un marchio di fabbrica e i pastorelli a cavallo sono da pubblicità della Benetton tanto sono belli, lerci e sorridenti.

Semonkong è un villaggio sperduto a 2500 metri di altitudine che esiste solo e soltanto per testimoniare come la desolazione possa, alle volte, sfiorare il sublime. Tutto ciò che ruota attorno alla cosiddetta civiltà, in questo angolo remoto del pianeta, assume un aspetto come di seconda mano, trasandato, arrugginito, storto, consunto. “Fraiser”, uno spaccio con tre scaffali in croce stile Mosca prima della caduta del muro; le botteghe, in fila, come tante microscopiche scatolette sbilenche di lamina ondulata che vendono mutandoni elastici per signora, detersivo azzurro o rosa in sacchetti monodose da tre rand e per starci dentro ti devi accartocciare su uno sgabello. O devi trasformarti in un fiammiferino, con tanto di calzamaglia integrale rossa. C’è pure un capannone dove, in ordine sparso, riparano scarpe, intagliano tombe, fanno le focacce e cuciono le divise scolastiche. Alla faccia della divisione del lavoro.

Vicino a Semonkong c’è una cascata di 199 metri che scava un canion degno dell’Arizona. Ci si arriva a cavallo, attraversando campi coltivati rubati ai versanti delle montagne e villaggi che farebbero venire l’acquolina a Gargamella. Le casette, di pietra, con il tetto di paglia, sono delle specie di trulli, trulletti direi, con la porticina colorata, il cortiletto con gli animali e una bandierina gialla che sventola davanti, a dire che lì si fabbrica la birra locale, se ti va. Passi al trotto combattendo con il quadrupede che ti trasporta nella speranza che la smetta di fermarsi a mangiare a ogni piè sospinto e mentre sei lì, ancora indeciso se farti chiamare il Grinta o Piccolo Grande Uomo, i pastori ti salutano increduli. Dumela, Dumelamè, Salaamuntlè.

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