in Diario dal Mozambico

Incidenti, chapa e altre cose

Un pomeriggio siamo andati da João Semente, che manco a dirlo, fa il contadino. João ci ha raccontato delle sue papaie e dei suoi manghi, del riso e del laghetto dove adesso tiene i pesci. Quando annuisce João fa una specie di singhiozzo, un risucchio accompagnato da una nasata in sù. Hic patrão. E qui ho il cavolo, le banane, gli eucalipti. Hic, Hic patrão. Odio quando mi chiamano patrão. Nella mia famiglia dare del padrone a qualcuno non è mai stato un complimento.

Sulla strada per il Malawi è crollato un ponte. Si vede che non l’hanno fatto i giapponesi. Non ha neppure un nome. A dire il vero non è proprio crollato. Era uno di quei ponti fatti con grandi travi di legno tenute insieme da cordoli di ferro. Qualcuno ha rubato i cordoli e quando il camion carico di miglio è passato, le travi di legno gli si sono scombinate sotto le ruote e il camion si è rovesciato. Sono morte due persone. Stavano sul tetto, in cima ai sacchi di miglio. Qui è la norma. Sul camion è rimasta solo la bicicletta, che era legata. Loro, i due passeggeri, sono finiti nel fiume di sotto. Quest’anno c’è stata siccità e il fiume è secco. Così la più importante via di trasporto di tutta la Zambesia è rimasta bloccata per tre giorni.

Maputo, dopo due settimane di Zambesia, sembra casa. Le feste e i balli del 1° maggio, le passeggiate sulla Mondlane a caccia di polverosi manuali marxisti-leninisti, il rumore del frigorifero, il pomeriggio con Idio nella scuola di Maxaquene a vedere i bambini danzare. Idio è uno dei maestri di danza di Milorho. Il mio preferito. Insieme stiamo inventando una coreografia, mescoliamo stili, sensibilità, passi. Temos que investigar, dicono spesso lui e Manhanga con la luce negli occhi. Corpi che neanche il Discobolo e una mobilità da fare invidia a un cobra. Per quanto mi riguarda non è una sfida da poco, visto quell’invalicabile problema della carenza vertebrale e visto il muro culturale di mattoni pieni che mi rende impossibili i movimenti più compulsivi. Sei un po’ quadrata, mi fanno con un sorriso. Ma vaaa? Liberare il corpo, svuotare la mente, uscire fuori dai binari consueti. Mai la distanza culturale mi è sembrata così terribilmente tangibile. Mai il desiderio di svelarla così a portata.

Usa la forza giovane padauàn, sussurro tra me e me, quando salgo su uno chapa. Dicesi chapa (leggesi sciapa) il classico pulmino Hiace che-quando-lo-vedi-ti-chiedi-come-fanno-i-pezzi-a-stare-tutti-attaccati. Una moneta da cinque contos e puoi salire su questi minibus che sfrecciano come schegge impazzite per la città inseguendo direttrici imperscutabili. Portiera rigorosamente aperta, bigliettaio appeso fuori che, senza sosta, recita la destinazione finale. Un bar, un incrocio, un mercato, il nome di un venditore che sta sempre all’angolo, poco importa. E’ del tutto inutile tentare di sapere con ragionevole approssimazione quale sarà davvero il capolinea. Vere e proprie imprese private, gli chapa sfidano con disinvoltura il concetto di capienza, arrivando a caricare fino a 25-30 persone in uno spazio pensato per 6-7 (bambini e animali esclusi). Per scendere basta urlare, con quanto fiato si ha nei polmoni, Paragem!, fermata. Un regolamento non scritto prevede che questo accada, quasi sempre, quando si è seduti sul seggiolino in fondo, al lato, in ultima fila. Paragem! ti tocca gridare tra gli sguardi increduli degli astanti e, come per magia, l’intero contenuto umano dello chapa inizia ad animarsi, scostarsi, piegarsi, contorcersi per creare l’illusione ottica di un varco verso l?uscita. Un vero jedi, se debitamente formato, riesce alla fine a ritrovare la luce del sole.

Lipelile in shangana vuol dire buona notte ed è una bellissima parola. Lipelile. Basta, alle volte, per strappare una risata alle persone e continuare a camminare con il cuore più leggero.

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