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Acqua. Questa è la vera partita tra Israele e Palestina

Invertendo l’ordine degli addendi la somma non cambia, recita uno dei più conosciuti assiomi della matematica. E se non fosse del tutto vero? Se, per una volta, mescolare le carte servisse a modificare il risultato? A scommettere su una “logica alternativa” non è, come sarebbe prevedibile, un gruppo di visionari teorici matematici dell’MIT, ma una prestigiosa fondazione svizzera, il Geneva International Peace Research Institute (GIPRI), alle prese con un tema quanto mai spinoso e complesso come il conflitto israeliano-palestinese.

Alla luce di un quadro di trattative vieppiù deteriorato, l’equipe di ricercatori del GIPRI ha infatti deciso di affrontare l’annosa questione seguendo un approccio non del tutto convenzionale, nel quale politica e diplomazia smettono di essere considerati motori primi del processo di pace e passaggi obbligati per la risoluzione dei problemi tra i due Paesi, lasciando il “timone” alla scienza e alla tecnica. «Quello tra Israele e Palestina è soprattutto un conflitto di appropriazione» spiega Laurent Calligé, direttore didattico della Fondazione. «Più precisamente uno scontro sull’acqua, risorsa vitale, scarsa, contesa e da sempre strumentalizzata in Medio Oriente, ma, per sua stessa natura, trans-frontaliera. L’acqua in superficie è stata e continua a essere oggetto di continue dispute tra arabi e israeliani, di infinite prove di forza e ricatti, di incessanti ridefinizioni di confini (si pensi al Muro di Sharon)». Ma è davvero possibile e sensato stabilire a priori chi è proprietario delle falde acquifere sotterranee o titolare dell’umidità dei venti? «Ragionare sull’acqua è proprio un modo per discutere di cooperazione. L’acqua è in grado di forzare la politica, di aprire nuove strade, di farsi volano di nuove collaborazioni».

Questa, a grandi linee, l’intuizione alla base del progetto Water for Peace, che il GIPRI sta portando avanti dal 2000 con la collaborazione dei dipartimenti di Scienze politiche e di Geografia dell’Università di Ginevra, il Réseau Environnement de Genève (GEN) e l’Israel-Palestine Center for Research and Information. Tra le numerose attività in programma vi è anche l’organizzazione di una Conferenza, prevista per il prossimo autunno e interamente consacrata alla delicata e ormai endemica querelle, nella convinzione che l’ineguale ripartizione delle risorse idriche tra Israele e Palestina rappresenti oggi l’ostacolo principale alla ripresa del processo di pace e che pertanto solo da una sua risoluzione possa discendere una definitiva distensione delle relazioni tra le parti. «La Conferenza – spiega Valentina De Socio, giurista e ricercatrice della Fondazione – è idealmente il seguito di analoghe tavole rotonde svoltesi nel 1992 a Zurigo e nel 2004 ad Antalya, in Turchia. Lo scopo è promuovere un dibattito tra Israeliani e Palestinesi che rimetta in discussione l’attuale griglia concettuale di spartizione delle risorse, ma su una base soprattutto tecnica e scientifica (che non vuol dire pragmatica), nel tentativo di sottrarre la disputa a un’impostazione esclusivamente politica e facilitare così il confronto su un terreno giudicato neutro e sul quale è più facile individuare parametri oggettivi».

Israele e Palestina condividono oggi tre principali riserve idriche: il bacino del Giordano (con i suoi affluenti), la falda costiera e il cosiddetto “Mountain Aquifer”, un serbatoio sotterraneo che si estende in profondità al di sotto della Cisgiordania, per una lunghezza di 130 chilometri, dal Monte Carmel a nord, a Beersheva nel sud.

Un recente rapporto pubblicato da B’Tselem, (il Centro israeliano di informazione per i Diritti umani nei territori occupati) fa il punto sull’allocazione e lo sfruttamento di tali risorse. Il bacino del Giordano, cui l’autorità palestinese non ha più accesso dalla Guerra dei Sei Giorni del ’67, rifornisce Israele con 640 milioni di metri cubi di acqua l’anno, coprendo il 30 per cento dei suoi consumi complessivi. La falda costiera fornisce annualmente 150 milioni di metri cubi di acqua ad Israele (pari al 14 per cento dei consumi) e 110 ai palestinesi (pari al 96 per cento del fabbisogno). Infine lo Stato Israeliano intercetterebbe e consumerebbe oltre l’80 per cento dell’acqua del bacino Settentrionale del “Mountain Aquifer” (115 milioni di metri cubi all’anno), circa il 55 per cento di quella del bacino Orientale (83 milioni di metri cubi all’anno) e addirittura il 95 per cento delle risorse idriche del bacino Occidentale (340 milioni di metri cubi all’anno), di contro a un 20, 45 e 5 per cento estratto e impiegato nelle stesse zone dai palestinesi.

«Nel complesso» commenta Calligé, «un israeliano consuma 375 metri cubi d’acqua l’anno, un colono tra i 640 e i 1480 e un palestinese tra i 107 e i 156. In media un israeliano consuma cioè quattro volte la quantità d’acqua di un palestinese dei territori occupati e venti volte quella di un palestinese della Striscia di Gaza. Nessun dubbio che siamo di fronte a un problema di ripartizione, di controllo esclusivo, di gestione politica di una risorsa che è un vero casus belli intorno al quale continuano a cristallizzarsi le tensioni».

Hillel Shuval, professore emerito di Scienze Ambientali dell’Università di Gerusalemme e direttore del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Hadassah Academic College, riassume così le rivendicazioni delle due parti: «I Palestinesi sostengono che l’80% dell’acqua che si raccoglie nel Mountain Aquifer deriva dalle precipitazioni che cadono annualmente sul territorio della Cisgiordania. Nonostante si tratti di acqua palestinese, l’80-85 % è attualmente estratto dai pozzi e dalle pompe israeliane. Israele, da parte sua, si difende facendo appello ai trattati internazionali sui corsi d’acqua in comune, che, riconoscendo un diritto consuetudinario, legittimano lo sfruttamento storico di quei serbatoi sotterranei da parte dello Stato ebraico».

Il quadro giuridico che fa da sfondo alla questione resta, per il momento, piuttosto ambiguo, lacunoso e generico. Gli accordi di Taba del 28 settembre 1995, anche noti come Oslo II, hanno istituito, a garanzia di una gestione congiunta delle risorse idriche, un Joint Water Committee, ovvero un comitato misto israeliano-palestinese, e hanno precisato, all’articolo 40, che «Israele riconosce i diritti dei Palestinesi sull’acqua in Cisgordania». Un innegabile passo in avanti verso il dialogo e la collaborazione, ma la diffidenza, quando non si trasforma in aperta ostilità, permane inalterata, rendendo la prudenza un obbligo. E non soltanto per il fatto che l’enunciazione di un diritto è altro dalla sua applicazione, ma anche perché, più in generale, cosa si debba intendere per “diritto all’acqua” rimane tutt’oggi materia di accese discussioni a livello nazionale e internazionale. Il recente Forum Mondiale dell’Acqua non ha perso l’occasione di ricordarlo. L’acqua, ci si domanda, è un diritto o un bisogno? L’accesso all’acqua è qualcosa di inalienabilmente connesso all’individuo e alla collettività o è, invece, una variabile politicamente negoziabile? «Intendiamo affrontare la questione dell’acqua avendo come obiettivo la promozione di un dialogo che tenga conto e del soddisfacimento dei bisogni e della necessità della promozione dei diritti. – Si legge nel testo preparatorio della conferenza curata dal GIPRI – In questo modo saremo portati a misurarci con un contesto integrato, in cui interagiscono fattori economici, giuridici e ambientali; inoltre collegando la teoria con la pratica, ci obbligheremo ad una prospettiva di lungo termine. Dal bilancio dei progetti già realizzati si passerà a una fase di proposte concrete, che scaturiranno dalla comprensione delle contraddizioni in campo, e non dall’espressione di un giudizio».

Il terreno è scivoloso nonostante le cautele, ma la scommessa va lanciata prontamente e non può essere rimandata oltre, se è vero che in una regione semi-arida come quella mediorientale anche l’acqua “litigata” rischia, in anni non lontani, di ridursi a poche gocce.

Pubblicato su «Vita non profit» il 7 aprile 2006

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