in Vivere altrove

Cina. Le città infinite

Da quasi trent’anni architetti, urbanisti e sociologi si confrontano con il cosiddetto “miracolo cinese”, cercando di interpretare, misurare e decodificare una delle sue componenti più visibili, vale a dire l’irrefrenabile boom urbanistico che, protagoniste città come Pechino, Shangai, Chongqin e Shenzhen, stravolge logiche, ridisegna paesaggi, crea e distrugge spazi sociali ed economici, inventa tradizioni e riscopre patrimoni. Spettatori perennemente in bilico tra il fischio e l’applauso, entusiasti (per la rapidità) e sospettosi (per i metodi), gli addetti ai lavori trattengono il fiato e sospendono il giudizio di fronte ad uno spettacolo i cui atti si susseguono senza apparente soluzione di continuità. Un tasso di urbanizzazione del 3,5% tra il 1990 e il 2004, secondo il «China Daily», motore di una crescita economica intorno all’8,9%. Circa mezzo miliardo di metri quadri di nuove superfici residenziali l’anno.

L’esigenza di riflettere sui tempi, i modi e le ragioni di questa imponente corsa alla città e alla verticalità si fa ogni giorno più stringente, richiedendo attenzione e apprendimento continui. Le nuove megalopoli-cantiere, ci si domanda, sono metropoli disumanizzanti, incongrue e prive di ogni controllo o effervescenti laboratori di sperimentazione nei quali si plasma la città del futuro? Sono parchi di attrazione eccentrici e artificiali o creature high-tech pianificate e studiate a tavolino, parcella per parcella, da architetti di fama e di gusto? Difficile dirlo e difficile anche escludere che siano in buona parte una miscela, più o meno eterogenea, di tutto questo insieme.

Françoise Ged, architetto e responsabile dell’Observatoire de l’architecture de la Chine contemporaine a Parigi, invita alla cautela. «La nozione stessa di città perde, in Cina, gran parte del significato che noi tradizionalmente le attribuiamo. Le cosiddette città cinesi parlano, urbanisticamente, un’altra lingua. Appaiono ai nostri occhi come giganteschi agglomerati, che crescono anche di 60 chilometri quadrati l’anno e nei quali si concentra il 37% di una popolazione che ammonta nel complesso a 1 miliardo e 300 milioni di persone. A Pechino negli anni Novanta si parlava dello sviluppo residenziale della terza periferia. Nel 2006 siamo ormai alla settima. Shangai ha 13 milioni di abitanti mentre Chongqin, da quando al suo governo è stato dato un controllo di tipo municipale su un territorio grande come alcune nazioni, è la più grande municipalità del mondo con 31 milioni di abitanti. Una scala di grandezza che non ha paragoni». Ma per comprendere i fenomeni che, in filigrana, si intrecciano a questa scala, non ci si può e non ci si deve fermare ai numeri, limitandosi a commentarli con uno sbigottito e allarmato punto esclamativo.

I confini delle aree metropolitane inglobano ogni mese pezzi grandi come regioni, i centri-città si moltiplicano e specializzano trasformandosi in veri e propri distretti funzionali, i Central Business District (Chaoyang a Pechino o Jiujiazui a Shanghai), nel segno di una modernità trionfante, ma abitare in «città» e avere il diritto di residenza restano cose ben distinte: essere cittadino è infatti una condizione amministrativa (e non qualitativa), un diritto-privilegio che non è dato a tutti. Per questo a Shenzhen è possibile contare 11 milioni di abitanti e solo 1 milione di residenti, i soli dotati di una “carta di residenza” (hukou) che dà accesso ai servizi della città. Risultato: 10 milioni di cosiddetti «emigranti», floating people che le riforme economiche degli anni Ottanta e Novanta hanno affrancato dall’immobilismo della città maoista – fondata sull’indissolubilità tra luogo di residenza e unità di lavoro (danwei) – e trasformato in attori economici e sociali liberi di scegliere come e dove vivere, ma privati dei servizi fino ad allora gratuiti e garantiti dal regime, come la casa, l’educazione e l’assistenza medica. Alternativamente dipinti come vittime e protagonisti di questo imponente processo di transizione, sudditi vessati e sedotti da una crescita urbana ed economica a ritmo forzato, gli abitanti delle megacittà, siano essi di serie A o di serie B, incarnano in pieno le contraddizioni di una rivoluzione strutturale e istituzionale solo in apparenza anarchica e smodata. «Negli ultimi anni», continua Françoise Ged «la forbice tra ricchi e poveri è triplicata, e ad averlo ammesso è proprio il Governo, nel corso dell’ultima assemblea nazionale, tenutasi a marzo. La rapida urbanizzazione non è stata solo preannunciata, ma voluta, pianificata e poi indotta. È evidente che ha avuto costi sociali e soprattutto ambientali consistenti, oltre a creare preoccupanti zone d’ombra, come la speculazione e la corruzione dei promotori immobiliari, la diffusione di pratiche fraudolente e malversazioni, come nel caso, frequente, di sgomberi ed espulsioni massicce di abitanti dal centro-città, a fronte di compensazioni insufficienti. Il processo di gentrification, arbitro l’autorità amministrativa, nella sola Pechino tra il 1992 e il 2001 ha spedito in periferia 800 mila famiglie (2,7 milioni di abitanti). Ma sarebbe semplicistico addossare a questa scatenata frenesia costruttiva, che ha il compito di trainare lo sviluppo, tutte le responsabilità del degrado senza riconoscerne anche gli effetti benefici». Le grandi megalopoli cinesi raccontano, è vero, il potere economico e finanziario e la forte polarizzazione e segregazione sociale, ma dati alla mano, molti sembrano riconoscere che il livello medio di vita dei loro abitanti è aumentato. «Gli 8 metri quadri di superficie abitabile a testa del 2000 nel 2006 sono diventati 20», commenta la Ged. La classe media, in ascesa benché minoritaria, riformula il concetto di benessere domestico, scopre il comfort e la proprietà individuale.

Gli spazi di prossimità esplodono, gli spostamenti si individualizzano, le reti di trasporto si riorganizzano e strutturano il tessuto urbano a due velocità, le scelte delle famiglie si fanno autonome (e in materia di circolazione passano lentamente dalle due alle quattro ruote, che aumentano del 30% ogni anno). L’era della mobilità è cominciata. «È proprio questo il paradigma delle città cinesi» spiega Jean-François Doulet, professore di Pianificazione Urbana alla Facoltà di Scienze Politiche di Parigi. «La flessibilità regionale, professionale e sociale, acquisita a partire dalle riforme, ha avuto numerose conseguenze interessanti. Una di queste è la scoperta dello spazio pubblico, un concetto nuovo in un universo urbano prima rigido e indifferenziato. Il cittadino cinese si apre al consumo, alla convivialità, al tempo libero e incomincia a muoversi per il semplice piacere di farlo, e non perché lo spostamento sia funzionale al lavoro o all’accesso a un servizio. Le frequentazioni e i legami sociali sono sempre più un fatto di affinità e sempre meno un’imposizione legata all’unità lavorativa o di vicinato. Xintiandi, il quartiere vip di Shangai, è l’emblema di questa conquista che è la moltiplicazione dei luoghi d’interazione e d’incontro». L’illuminazione e l’arredo urbano diventano una forma di riappropriazione della città da parte degli abitanti, così come i percorsi o le aree pedonali.

Un lifting inebriante e vertiginoso che la propaganda ufficiale vende, all’interno e all’estero, come un nuovo Eldorado capace di tenere insieme profitto e interesse collettivo, suburbanizzazione e facile accesso. Shangai e Pechino sono metropoli che si nutrono di movimento. Di più organizzano e producono il movimento. «Il potenziale della ricetta cinese è enorme», ammette Doulet «anche se i risultati spesso non sono all’altezza dei piani. L’impressione è che si investa tutto in innovazione tecnologica e manchi invece una soluzione organizzativa peculiare, un modello di città e società urbana che non sia la semplice trasposizione, al cubo, di quanto già esiste altrove». Fatta la città, insomma, resta da fare la civiltà urbana.

Pubblicato su «Vita non profit» il 5 maggio 2006

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