in Vivere altrove

Vienna, l’altra Onu è una gioiosa Babele

Vienna, estate 2007.

Ore 9. In Heldenplatz, la piazza degli eroi, ci saranno 32°. Le bandiere degli Stati che partecipano all’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (Osce) cadono molli lungo le aste. Di fianco la statua del Principe Eugenio di Savoia. Dietro, nel Neue Hofburg – un gigantesco foro imperiale in stile neobarocco – la Biblioteca Nazionale, il Museo di etnologia, il Museo dei mappamondi e il Museo internazionale di Esperanto. Penso: l’Esperanto esiste ancora?

Ore 9,30. La 618esima seduta del Permanent Council dell’Osce incomincia tra mezz’ora. Entro, spingo la porta girevole di vetro, salgo tre rampe di scale, attraverso la caffetteria e guadagno finalmente l’ingresso al salone. Nell’ampia stanza vetrata partecipo a un briefing preliminare. Il Permanent Council, scopro, è il cuore pulsante dell’Osce, strana creatura politico-diplomatica nata negli anni Settanta, in odore di Guerra Fredda, come forum multilaterale di discussione e negoziazione tra i due blocchi (per questo ne fanno parte anche gli Stati Uniti e il Canada) e trasformatasi, dopo la caduta del muro di Berlino, in un organismo per la prevenzione dei conflitti, il mantenimento della pace, la gestione delle crisi e la ricostruzione post-bellica. Il responsabile PR parla di una “comunità di valori e di responsabilità”, più snella e flessibile delle Nazioni Unite secondo alcuni, più debole e dispersiva secondo altri. In genere, comunque, meno condizionata e condizionante. Da Vancouver a Vladivostok, recita il sottotitolo. Il cervello in Europa e gli occhi, non a caso, a Vienna. Di qui infatti lo sguardo arriva più facilmente fino al Caucaso e alle steppe dell’Asia Centrale che sono la sua tradizionale area di competenza. L’Est.

Ore 9,45. Il briefing continua. Alla guida della più grande Organizzazione regionale di sicurezza del mondo c’è attualmente il Ministro degli Affari esteri belga Karel De Gucht. Nel gennaio 2007 l’incarico passerà alla Spagna. Qualche numero: 168.165.800 euro di budget annuo, 869 funzionari nello staff, 3000 persone sul campo, 18 missioni in corso, 20-30 meeting al giorno, 40.000 documenti l’anno, 736 decisioni prese. Il Permanent Council, vengo a sapere, delibera, ma non impone sanzioni perché si basa sulla regola del consenso e della cooperazione volontaria. Talkinglobbyingconvincing. Dialogare-influenzare-convincere.

Ore 10. Le delegazioni prendono finalmente posto intorno alla lunga tavolata a ferro di cavallo: prima a destra siede l’Abania, ultimo a sinistra l’Uzbekistan. L’Italia sta perfettamente al centro, tra l’Islanda e il Kazakhistan. L’ordine è alfabetico, curiosamente in francese. Gli Stati sono 56, ma i posti a sedere 57. Uno è per l’Europa che, in genere, parla con una sola voce. Il primo a intervenire è l’ambasciatore armeno, che a braccio, polemizza energicamente sui risultati dell’ultima missione Osce a Yerevan. La missione aveva il compito di vigilare sui processi di riforma elettorale e costituzionale in corso, di promuovere la lotta alla corruzione e al traffico di armi, droga e persone, di sostenere i diritti umani, la libertà dei mezzi di comunicazione e di assistere il governo nello smaltimento di stock di melange altamente tossici (872 tonnellate in un anno). L’ambasciatore prende atto del lavoro svolto e ringrazia dell’aiuto prestato, ma solleva, provocatorio, il problema dell’“elettocrazia”. Dice che lo svolgimento delle elezioni, assicurato anche dall’Osce, è condizione necessaria ma non sufficiente. Che “giovani” democrazie, come l’Armenia, sono di fatto ostaggio di democrazie cosiddette “mature”. Che bisogna ripristinare un equilibrio tra i Paesi che partecipano all’Osce. Che non si può fare le pulci agli altri e non farsele a se stessi. Che chi l’ha detto che una democrazia “matura” è più saggia di una “giovane”? L’ambasciatrice americana si alza ed esce, ma è solo una coincidenza. Il solito problema: due pesi e due misure, in gergo double standard. La presenza dell’Osce segue l’invito del governo che ne ospita la missione, ma nonostante questo è considerata un elemento di “delegittimazione”, una bandiera infamante. Un modo per segnalare al mondo che lì il governo non è in grado di fare il suo mestiere. La diplomazia parla in modo molto più diretto di quanto non mi aspettassi.

Ore 10,20. Il fiore passa al brigadiere Claudio Sampaolo che presenta un rapporto piuttosto tecnico sul controllo delle armi in Bosnia-Erzegovina, Croazia e Repubblica Srpska: un passo essenziale, spiega, nel processo di normalizzazione auspicato dagli Accordi di Dayton, dieci anni fa. Le recenti ispezioni, chiarisce Sampaolo, hanno dato i risultati sperati. La riduzione volontaria degli armamenti procede. Il pensiero ritorna alla feroce guerra in ex Jugoslavia. La geografia è cambiata, da allora. L’ultimo acquisto dell’Osce, lo Stato numero 56, è, da giugno scorso, il Montenegro.

Ore 11. Si riprende dopo una breve pausa. Il moderatore dà la parola prima a un revisore dei conti, poi al rappresentante egiziano che annuncia che, in novembre, a Sharm El-Sheik, si terrà un seminario dedicato al tema della migrazione nell’area mediterranea. Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Marocco e Tunisia sono partner dell’Osce. Mi domando chi è che decide quali sono i confini. L’orizzonte, tra terra e mare, sembra infinito. Oltre che ad Est, dunque, la geopolitica guarda anche a Sud.

Ore 11,20. Chiede la parola Christina Harttila per l’Unione Europea. La nuova legge sui media in Kazakhistan lede la libertà di espressione, dice la Harttilla in un quasi-sussurro, e l’Europa è preoccupata. Segue un elenco di 25 firme. A questo tavolo, Bruxelles è una vera potenza e, almeno nel braccio di ferro interno all’Osce, conta più degli Stati Uniti. Sembra incredibile. Al termine della seduta chiedo alla Harttila se arrivare a dichiarazioni unitarie sia un procedimento semplice. Mi risponde che no. Spesso si fa nottata, ma che l’Europa è un “animale politico” con un interesse preciso, e che questo interesse deve essere, ed è, qualcosa di più della semplice somma degli interessi degli Stati che la compongono.

Ore 11,40. Il Kazakhistan replica elusivamente, affermando che la nuova legge si limita a introdurre dei parametri tecnici, ma la partita è tutt’altro che chiusa. E’ la volta della Turchia, che interroga l’Uzbekistan sull’andamento della promessa revisione delle procedure penali. L’Uzbekistan risponde che, come stabilito, la pena di morte verrà abolita dal 1° gennaio 2008. Prima della fine si fa ancora in tempo a discutere della chiusura forzata del sindacato dei giornalisti in Tajikistan e a pianificare l’ennesima missione di ricognizione in Nagorno-Karabach, l’enclave armena in territorio azero. Il cessate il fuoco dura dal ’94, ma il nervo è ancora scoperto. Storia di confini, di petrolio, di minoranze religiose, di integrità territoriali, di alleanze e particolarismi. I negoziati procedono lentamente, un fiume sotterraneo che ancora non ha deciso in quale mare gettarsi.

Ore 12. La seduta settimanale del Permanent Council si conclude. La caffetteria si rianima. Scendo le scale e penso che, per una volta, ho visto la politica, quotidiana e mondiale, al lavoro, ho sentito il sudore, visto i muscoli, indovinato i sottintesi, osservato le pause e studiato lo sguardo dietro gli occhiali. E ciò che ho visto, in fondo, non mi è dispiaciuto.

Pubblicato su «Vita non profit» il 25 agosto 2006

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