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Profughi iracheni: tutti sulle spalle della Siria

images.jpg«È ora che il mondo apra gli occhi e riconosca che in Iraq, oltre ad una guerra violenta e sanguinosa, si sta consumando un vero e proprio dramma umanitario». Si riparte di qui, con le parole dell’Alto Commissario per i Rifugiati António Guterres che hanno chiuso, lo scorso 18 aprile, al Palazzo dell’Onu di Ginevra, la conferenza internazionale promossa dall’Acnur per fare il punto sulle drammatiche conseguenze della crisi irachena e definire i contorni di un esodo disperato, angosciato e continuo. Secondo il Sottosegretario Generale per gli Affari Umanitari e Coordinatore per l’assistenza d’emergenza John Holmes «gli iracheni in fuga sono oltre 4 milioni. Circa 1,9 milioni si trovano ancora all’interno del paese – il 28% sono donne, il 48% bambini – e oltre 2 milioni hanno cercato rifugio nei paesi limitrofi». 1 milione e 200mila in Siria, 750mila in Giordania, 100mila in Egitto, 54mila in Iran, 40mila in Libano, 10mila in Turchia e 200mila nei restanti paesi del Golfo persico (eccezion fatta per Kuwait e Arabia Saudita che hanno chiuso le frontiere). Sfollati, rifugiati, richiedenti asilo: «le definizioni giuridiche lasciano un po’ il tempo che trovano» ha commentato Guterres «quando un iracheno su otto è costretto a scappare dalla propria terra per non morire».

L’esodo iracheno non è cosa recente. Durante il regime di Saddam Hussein molti intellettuali e oppositori avevano scelto l’esilio. Dopo la caduta del dittatore, tra il 2003 e il 2005, più di 300mila avevano deciso di rientrare in Iraq, spinti dal desiderio, comune a tutti gli esuli, di ricominciare nella propria terra. Ma la tendenza si è drasticamente invertita all’indomani della strage alla Moschea di Samarra nel febbraio 2006. «Da allora» ha dichiarato Paula J. Dobriansky, sottosegretario di Stato per la Democrazia e gli Affari Esteri del governo statunitense «730mila iracheni hanno nuovamente abbandonato le proprie case». «Nel 2006», fa eco l’Acnur, «le richieste irachene di asilo nei paesi occidentali sono cresciute del 77% passando da 12.500 nel 2005 a 22mila» (in cima alla lista la Svezia, con 9mila domande).
«All’interno dell’Iraq – sostiene Human Right Watch – le tensioni etico-religiose stanno montando anche in aree tradizionalmente miste e i profughi, in un pesante clima di terrore e intimidazione, sono costretti a trovare rifugio nelle comunità dove il loro gruppo è maggioritario». Incombe insomma, tanto al nord – Dohuk, Erbil, Sulaymaniyah – quanto al sud – Kerbala, Babylon, Thi-Qar, Muthanna e Najaf – la seria minaccia di un Paese dominato dall’apartheid e congelato da una rigida segregazione in «cantoni» demograficamente omogenei. Vittime di questa situazione soprattutto i circa 34mila palestinesi rifugiati in Iraq, oggetto di attacchi, violenze e discriminazioni da parte di gruppi shiiti. Quanto ai paesi ospitanti – Siria e Giordania in primis – sono ormai sull’orlo della saturazione e cresce la tentazione di serrare le fila e blindare i confini. In un documento fatto circolare durante la conferenza, il Dipartimento degli Affari Esteri siriano dipinge una situazione insostenibile. La marea di iracheni che si è riversata in Siria ha fatto lievitare il costo della vita: il prezzo dei beni di prima necessità è raddoppiato, quello degli affitti triplicato. Le infrastrutture del paese (sanità, trasporti, educazione) sono al limite del collasso e il livello di disoccupazione ha sfiorato lo scorso anno il 20%. Il Ministero ha dichiarato di aver speso, nei due anni passati, 161.890.000 di dollari per garantire assistenza e sostegno ai rifugiati iracheni – una cifra enorme, se paragonata a quella stanziata da Paesi ben più ricchi – e chiede adesso l’impegno della comunità internazionale. La Giordania sta invece attuando una rischiosa politica di «trattamento silenzioso», secondo la definizione che ne ha dato HRW. Considerando i profughi iracheni non rifugiati de facto, ma «visitatori temporanei», il regno hashemita rifiuta di farsi carico della loro protezione e, pur avendoli finora ammessi sul suo territorio, concede visti difficilmente rinnovabili e costringe così la maggioranza alla clandestinità.

Pubblicato su «Vita», 27 aprile 2007.

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  1. Non ci credo che il Sottosegretario Generale per gli Affari Umanitari e Coordinatore per l’assistenza d’emergenza si chiama JOHN HOLMES!!!!