in Vivere altrove

Se il poliziotto lascia a casa il manganello

police.jpgUn poliziotto psicologo e uno scrittore di origini algerine. Il primo da anni pattuglia le strade dei quartieri caldi di Ginevra e di Bangkok, il secondo, già consigliere del Primo ministro francese Michel Rocard, nelle banlieues, le periferie metropolitane, ci vive da sempre, traendone materia per i suoi scritti.

Yves Patrick Delachaux e Rabah Tounsi non sono i protagonisti della nuova serie televisiva in programma per l’autunno, ma i componenti del team che il Cantone di Ginevra ha costituito per formare i corpi di polizia in materia di etica e diritti dell’uomo. Un parternariato tra Stato e società civile per aprire spazi di comunicazione tra forze dell’ordine e comunità straniere.

La polizia svizzera è particolarmente razzista? «Non conosco poliziotti razzisti» spiega Delachaux, «solo giovani disillusi che hanno dimenticato perché fanno questo mestiere o anziani che, dopo tanti anni d’esperienza, reagiscono con dei facili automatismi, affidandosi a dei chichés pericolosi. Se vivi sotto costante pressione, se tutti si lamentano di un clima di crescente insicurezza e criminalità, è facile, quasi inevitabile, che un ispanico diventi ai tuoi occhi immediatamente un clandestino e un nero uno spacciatore».

Riflesso etnocentrico, lo chiama nell’introduzione del libro di Delachaux intitolato «Presumé non coupable» Jean Daniel Vigny, funzionario del Dipartimento federale degli Affari Esteri. O, molto più semplicemente, stereotipo. Lo stesso che porta molti stranieri a diffidare di divise e distintivi. Preparare i poliziotti all’interazione con le comunità di immigrati, fornendo loro degli strumenti di mediazione, all’insegna del rispetto, ma anche del pragmatismo, è la risposta che la Svizzera romanda ha messo in campo contro le sempre più frequenti derive razziste e discriminatorie di cui sarebbero responsabili i tutori dell’ordine. Una «terza via» che, tenendo ben a mente la complessa relazione tra l’applicazione della legge e la realtà del terreno, suggerisce, nel solco della più elvetica delle tradizioni, un moderato punto d’incontro tra la repressione pura e semplice e quel capillare lavoro di prossimità auspicato dai più illuminati.

Le lezioni dell’atipica coppia di professori, il poliziotto psicologo e lo scrittore di periferia, prendono spunto dall’ascolto di normali casi d’intervento, episodi dai quali il più delle volte trapelano odio, paura, collera, diffidenza, xenofobia, pregiudizi, esasperazione e frustrazione, indotti dal contatto quotidiano e mai filtrato con la violenza. Ai novelli studenti viene dunque offerta una «griglia di lettura» delle situazioni critiche, suggerendo, con una sorta di pedagogia dell’esperienza, le possibili reazioni. La chiarificazione di nozioni essenziali come «potere di coercizione», «discrezionalità» o «abuso» colma le lacune e l’immaturità di un sistema a detta di Delachaux «orfano di risorse umane, organizzative e politiche».

Pubblicato su «Vita», sabato 29 settembre 2007.

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