in Vivere altrove

Trans-Culture Kids

La dottoressa Ruth Hill Useem è stata la prima a coniare l’espressione. Era l’inizio degli Anni 50 e la sociologa si era trasferita in India con i suoi tre figli. Proprio loro si trasformarono sotto i suoi occhi, in «Third Culture Kids», o «Trans-Culture Kids » (TCK o 3CK), ovvero in individui che, – in base alla sua stessa definizione – avendo trascorso una parte significativa della loro esistenza in una cultura altra rispetto a quella di provenienza dei genitori, erano diventati portatori di una cultura terza, risultato della loro personale rielaborazione tanto di quella parentale (la prima) quanto di quella propria della terra d’adozione (la seconda).

Michael, Howard e Bert divennero dunque TCKs ante litteram, meno celebri forse dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, – anche lui un TCK nato alle Hawaii da madre americana e padre kenyota, cresciuto in Indonesia e poi rientrato negli States – o dell’attore Viggo Mortensen nato a New York City e cresciuto in Venezuela, Danimarca ed Argentina prima di sbarcare a Los Angeles – ma in tutto simili a molti altri figli e figlie di uomini d’affari, diplomatici, militari. La letteratura esistente sull’argomento è ampia e ricca di numeri (un sito in particolare la raccoglie, www.tckid.com). I TCKs hanno una probabilità 4 volte superiore ai non-TCK di diplomarsi, si legge. Il 40% prosegue gli studi dopo il diploma e il 45% frequenta almeno tre università diverse prima della laurea. Pochi faranno il mestiere dei loro genitori, molti continueranno irrequieti a spostarsi, portandosi dietro una straordinaria capacità di adattamento e l’amara consapevolezza di non potersi mai sentire del tutto a casa.

Guardo Giulia, la sera, quando a fine giornata la recupero dall’asilo insieme alle sue amichette. In quattro fanno a stento 11 anni, ma parlano otto lingue e appartengono a chissà quanti mondi diversi. O forse, direbbe la dottoressa Useem, solo ad uno, il loro. Un miscuglio di nomi, suoni, abitudini e colori che fa invidia e anche un po’ di paura.

Pubblicato su “La Stampa” il 1/10/2010.

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