Di solito noi emigranti ci confrontiamo con emozioni come la nostalgia, l’assenza, la distanza, la ricerca di senso in un’altrove in cui facciamo, talvolta, fatica a metter radici profonde. Perché anche quando ci sentiamo a casa, finalmente ambientati e tranquilli, d’improvviso altro ci appare il senso, il significato, altra la sensibilità, altre le regole, i codici, i segni, i linguaggi. Basta poco. Uno sguardo imbarazzato, un’occhiata severa, o qualcuno che ti domanda cortesemente di parlare a bassa voce. Basta poco, per capire che si è valicato un limite invisibile, e che questo limite segnala, inesorabile, un’estraneità.
Ultimamente, complice un saggio di Gabriella Turnaturi, mi sono trovata a riflettere sulla complessa architettura della «vergogna» e sulla natura (insospettabilmente) sociale e «identitaria» di questo sentimento. Una comunità, infatti, non solo costruisce il proprio senso e la propria sensibilità collettiva dotandosi di norme e valori, ideali e aspirazioni condivisi, ma definisce anche ciò che debba ritenersi vergognoso e ciò di cui bisogna vergognarsi. Anche la vergogna, insomma, è un’emozione che prevede il comune, l’essere con. «Non siamo mai soli quando proviamo vergogna – spiega la Turnaturi, – non siamo solo noi a decidere quando e come vergognarci». Cercare la vergogna equivale pertanto, in qualche modo, a tastare il polso del senso comune di una comunità e del suo grado di coesione.
Non ci avevo mai pensato. Non avevo mai riflettuto sul fatto che dipendesse da lei, dalla vergogna, lo spaesamento che prova l’emigrato di fronte a reazioni, esibizioni o al contrario nascondimenti propri della realtà che gli sta di fronte. Il paese a cui si appartiene non è, come usualmente si crede, quello che si ama, ma quello di cui ci si vergogna, ha scritto Carlo Ginzburg. Perché è la vergogna che segnala davvero ed in profondità, come una cartina al tornasole, o magari un campanello d’allarme, lo sguardo dell’altro e, in definitiva, quanto quel posto ci appartiene.