Una spiaggia deserta, all’ombra di una palma. Un caffè in una metropoli nordica. Un’amaca in un parco di Barcellona. Un lodge in una foresta neozelandese o una terrazza a Bali. Per una settimana, un mese o una stagione c’è chi ha la fortuna (e anche un po’ il coraggio) di trasformare queste istantanee, – per i più null’altro che fugaci ricordi estivi cui aggrapparsi durante l’inverno – in scenari lavorativi. Sono gli avventurieri dell’economia immateriale: in inglese “geek nomads”, in francese “nomades numériques”, in italiano, nomadi digitali. Il termine è stato coniato vent’anni fa da Makimoto e Manners, ma da allora la comunità nomade è notevolmente cambiata in composizione e consistenza. C’è chi stima toccherà il miliardo nel 2035. Per alcuni l’etichetta corrisponde ormai ad un vero e proprio stile di vita, quando non una filosofia, il cui motto potrebbe essere “Wireless ergo sum”, data la dipendenza ontologica dalla rete e dalle nuove tecnologie.
Flessibilità totale e mobilità permanente – raccontano gli interessati – permettono di essere più creativi ed efficaci, ma soprattutto di inventare un nuovo modo di lavorare, ridefinendo i paradigmi stessi di cosa significhi lavorare.
Se la vacanza disconnessa non esiste più, tanto vale prendere il toro per le corna e andare a lavorare direttamente in un luogo paradisiaco, insomma.
Qualche precauzione è tuttavia d’obbligo. Esther, informatica di origine olandese, che negli ultimi dieci anni non è mai restata nello stesso posto più di sei settimane, in quanto “non residente” ha perso, da un giorno all’altro, il diritto di voto, il diritto alla pensione e la copertura sociale. “Il solo organismo che continua a considerarmi cittadino olandese – spiega – è il fisco!”.