Quando si vive all’estero, la mancanza, quella vera, ha un solo nome: nonni. I nonni (italiani) sono le scatolette di tonno e le latte di salsa di pomodoro inserite di nascosto in valigia. Sono le telefonate che arrivano all’ora di cena o la domenica pomeriggio. Sono i Natali, le Pasque e i Capodanni all’ingrasso, le calze comprate al mercato, le bottiglie di Nebbiolo in scatole da sei e le offerte di aiuto in caso di malanno, o semplice nostalgia.
Giulia ha la fortuna di andare a scuola vicino ad un illustre Istituto di Studi Internazionali e dello Sviluppo. Il suo “roster” pesca da questo bacino pressoché infinito di studentesse brillanti, multilingue e diciamolo decisamente sovra qualificate. C’è stata un’esperta di genere indiana, seguita da un’antropologa punk di Berlino. Ma la leader indiscussa, nonché autoeletta coordinatrice del “roster” è Fumi.
Fumi è nata a Tokyo ed è un mito. Non solo perché potremmo passare ore a parlare di politiche sanitarie nell’Africa sub-sahariana, di lotta all’AIDS nel Kivu congolese, o di micro-finanza nelle isole Samoa, ma soprattutto perché per noi lei è, insieme, il nonno e la nonna, pur avendo solo 24 anni. Fumi non pone mai problemi e se qualche inghippo ha l’ardire di presentarsi sulla nostra strada, lei me l’annuncia con la stessa delicata prudenza con cui i nonni ci annuncerebbero un incidente, ovvero sottovoce, minimizzando, e corredando il tutto con una pragmatica lista di tutte le possibili soluzioni.
La scorsa settimana devo ammettere che la sua dedizione ha, in modo certo inconsapevole, superato persino quella dei nonni, quando in un messaggio di scuse, preventive e del tutto non necessarie per un contrattempo che lei aveva comunque già risolto prima di rivelarmelo, mi ha scritto: “Se vuoi ti chiamo domani per farti delle scuse più formali”.