in Vivere altrove

Una mattina di fine novembre ai tropici

Ci sono nella vita, o almeno così mi pare, alcuni momenti fondativi. Sono attimi di consapevolezza in cui afferri piccole verità che prima ti sfuggivano o dai un nuovo senso a ciò che forse avevi sempre pensato di sapere, e invece.

Di momenti così ne conto sulle dita di una mano. Uno è recente, ancora completo di suoni, colori, odori.

Una mattina di fine novembre ai tropici. Il cielo blu, senza nubi. Il sole caldo, ma non opprimente. La terra gialla, che si solleva in piccoli vortici quando soffia il vento. Il rosso-arancione di una tenda di plastica tenuta su da pali di bambù.

Sono appena entrata nel più grande campo profughi del mondo, a Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove due anni fa hanno trovato rifugio oltre 740,000 Rohingya. La tenda è un piccolo “ospedale” del Campo 1E, uno dei 33 blocchi in cui sono organizzati gli accampamenti. Davanti all’ospedale, donne e uomini attendono pazienti il loro turno. Sono invitata ad entrare. Mi dicono che è appena nata una bambina. Esito, respiro, scosto la tenda che separa la stanza dal resto del locale. Sopra una brandina c’è una giovane donna, che tiene in braccio un bebè, avvolto in una coperta di lana. L’ostetrica mi fa accomodare. Mi sento un’intrusa in un momento così intimo che mi riporta a 11 anni fa, quando tenevo per la prima volta in grembo mia figlia. Dove sarà il padre, mi chiedo. Pesa tre chili e mezzo, precisa Shefa, l’ostetrica, con un grande sorriso. In quel preciso momento capisco che il nodo che mi serra la gola non è emozione, non è disagio, non è neanche gioia per la nascita di una bimba in buona salute. L’emozione è della madre, insieme al disagio per la mia presenza. La gioia è dell’ostetrica, soddisfatta per un parto senza complicazioni. A me resta solo una rabbia, intensa e feroce, per l’abissale ingiustizia di cui sono testimone. Una bimba è appena nata. Non ha nome, nazionalità, non ha un posto da chiamare casa che non sia un accampamento insalubre e sovraffollato. Non ha colpe. Non ha futuro. Esiste forse ingiustizia più grande?

Pubblicato su La Stampa il 20/12/2019

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