in Vivere altrove

Vivere altrove… in famiglia

viverealtrove_20060119.jpgL’immagine che gli italiani danno di sé all’estero e che, di rimando, gli stranieri hanno dell’italiano medio – e badate che le due cose non necessariamente corrispondono – è una specie di costante linea rossa per chi vive oltreconfine. Un termine di paragone scomodo ed ingombrante, una specie di pesante zavorra che ti si infila di soppiatto nelle valigie, tra il dentifricio e i collant, quando te ne vai. Un ammasso confuso di vaghi e per lo più antiquati stereotipi che ritorna nei discorsi e negli sguardi con una frequenza talmente martellante e una convinzione talmente inossidabile da estenuare il più atarassico degli emigrati. Eppure dalla lente deformante attraverso la quale il resto dell’umanità osserva noi italiani traspare qualcosa che, a volerci guardar bene, si avvicina pericolosamente al vero.
Prendiamo la famiglia. Quella italiana – che nell’immaginario estero è numerosa, invadente, attaccaticcia e caciarona – deve davvero avere un dna modificato, altrimenti non mi spiego come Martin, fisico austriaco poco più che trentenne, sposato con Sophie, francese funzionaria dell’OMS, possa portare i suoi tre figli Sebastien, Maxence e Camille dai nonni a Vienna solo due volte l’anno, senza temere ritorsioni, scioperi della fame o ammutinamenti. Mi viene il sospetto che c’entri un po’ il rapporto genitori-figli, (da cui discende quello nipoti-nonni, zie-fratelli e così di seguito) che altrove sembra meno viscerale, più autonomo forse, ma non per questo meno intenso o stretto. In alcuni casi è un semplice fatto di mobilità a rendere le relazioni più liquide. Negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra o in Francia, è pressoché impossibile che un figlio compia gli studi dove è nato, faccia un dottorato dove si è laureato, lavori dove ha preso il PhD. Facilmente si è fuori (e lontani) da casa a diciott’anni. E spesso non per scelta, ma per necessità. Gli affetti, m’immagino allora, non possono che imparare a nutrirsi della distanza, si affrancano dal confronto quotidiano o settimanale con la famiglia e crescono dotandosi di un baricentro proprio. Quello stesso che noi italiani nel mondo fatichiamo tanto a trovare.

Pubblicato su “La Stampa“, venerdì 4 aprile 2008.

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