in Diario dal Mozambico

Fuori le mura

In Mozambico prossimità e distanza sono, più che mai, categorie politiche. E’ lontano tutto ciò che non è a Maputo o nelle sue immediate vicinanze, vale a dire nell’estremo lembo meridionale del Paese, a due passi dal Sudafrica. Ne consegue che tutto il Mozambico si trova a essere, curiosamente, per sua stessa natura diremo geografica e ontologica, “lontano”. Inaccessibile, remoto, fuori orbita.

Il Nord sembra davvero un’altra galassia, ad anni luce dalla capitale. Lì Maputo è solo il nome di un villaggio di capanne di fango con il tetto di paglia; l’olio si vende in piccoli sacchetti di plastica trasparente come quelli dei pesci rossi del luna-park; l’elettricità non arriva che a singhiozzo e le ambulanze sono barelle attaccate a una bicicletta.

Ho girato le terre dei Makonde e dei Makua con cinque mozambicani. Una piccola troupe a caccia di immagini per un video. Ho mangiato la mia prima gazzella, ho liberato la macchina dal fango in una strada squarciata dalla pioggia canticchiando nella mente la musichetta di Malboro Country, ho filmato le “Brigadas moveis” che si spostano di villaggio in villaggio vaccinando i bambini. Ho imparato a chiamare Dengo Babu perché qui tutti si rivolgono a lui così, e mi piace un sacco. Babu. Ricorda l’orso Yoghi. Salaam Babu.

Per una settimana mi sono svegliata prima del sole, prima dei galli e ho mangiato una sola volta al giorno, alle sette di sera. Carne, soprattutto, ma una volta anche gli spaghetti cinesi all’arrabbiata. A Pemba e a Mocimboa da Praia ci sono le spiagge bianche, le palme e il mare da cartolina di viaggi del Tucano. I pescatori, ragazzi asciutti e fieri, ti offrono il pesce con aria di sfida e ti fanno sentire come se non te lo meritassi. I bambini ti salutano dicendo Ta-Taaaaa e i malati aspettano nel cortile del Posto de Saude con una rassegnazione fuori dal comune. Le donne hanno i visi tatuati, le capulane colorate che vengono dalla Tanzania e portano le asce sulla testa come gli equilibristi.

Sulla veranda una sera, alla luce di una candela, ho ascoltato i racconti su Samora Machel, il leader della guerra d’indipendenza Mozambicana e primo presidente del Paese. A Maputo avevo visitato i tre piani del museo della Rivoluzione, una domenica, insieme a uno studente. “Produrre è apprendere. Apprendere per produrre è lottare per migliorare”, c’è scritto su cartelli e ciclostili. “Uniti vinceremo”, “Indipendenza o morte”, “I fiori che cadono dagli alberi servono per preparare la terra a nuovi e più bei fiori che cresceranno la stagione seguente”. Il palazzo che ospita il museo è di quelli da ex DDR, un po’ scrostato, un po’ cadente; la retorica della lotta di liberazione mi aveva commosso più di una canzone degli Intillimani (ognuno ha il suo punto debole). A rendere il tutto un filo surreale solo l’entusiasmo del coro dell’Igreia Pentecostal Deus e Amor, al piano terra, che rumoreggiava gospel come nemmeno Radio Maria nei giorni di Pasqua. Visitare un museo, però, non è lo stesso che sedere sotto un patio in riva al mare davanti a una birra e ascoltare cinque mozambicani raccontare un sogno. Samora ha fatto, Samora ha voluto, Samora è riuscito, Samora ha creduto, noi abbiamo creduto con lui. Eccome se abbiamo creduto. Gli occhi, come quelli di un bambino davanti alla torta di compleanno. L’orgoglio, il coraggio, il rimpianto, il riscatto, l’amaro in bocca. Un viaggio nella storia, ai tempi dei buoni e dei cattivi, dei veri leader e delle loro rivoluzioni, quando tutto sembrava possibile, prima della guerra, l’altra, quella che i libri dicono “civile” e che adesso non si capisce perché c’è stata, quella che è finita da un giorno all’altro e nessuno vorrebbe ricordare. Quella che ha lasciato il Mozambico orfano di se stesso.

Tredici ore di strada, una gomma bucata e un numero impressionante di noccioline e anacardi dopo siamo arrivati in Zambesia. E’ stato un po’ come ritornare alla Contea dopo aver rischiato la vita nel regno di Mordor. Sarà perchè una buona parte della mia anima adesso sta lì, ma a me la Zambesia al confine con il Malawi sembra proprio la Svizzera: verdissima, ondulata, composta. Le piantagioni di Chà (che è parola cinese per dire té) seguono i pendii dei monti, regolari e ordinate come un cubo di Rubik. Sono private e un contadino per guadagnare la paga giornaliera deve raccogliere fino a 20 chili di foglioline nei grossi cesti che poi trasporta, ovviamente, sulla testa. Sulla strada circolano mandrie di biciclette marca “Hero”, quelle con i freni a bacchetta, il parafango, il campanello, lo specchietto e il cavalletto. Come tanti vigili o tanti olandesi. Penso che la Zambesia sia l’unico posto al mondo dove per guidare la bicicletta è richiesta la patente con tanto di bollo. La qual cosa acquista di senso non appena si faccia caso alla guida.

La strada – ce n’è sempre e solo una, color dell’argilla, spesso squarciata dalle piogge – è un compendio di socio-patologia neodarwiniana, se mi si passa la parolaccia. Il camion mangia la macchina. La macchina mangia la bici. La bici mangia il pedone. Il pedone mangia le galline. Le galline scappano. Chi guida qualcosa con due o più ruote quando incontra un ostacolo davanti a sè, a maggior ragione se l’ostacolo respira, accelera. Con convinzione affonda il piede sulla tavoletta e tende i muscoli del collo. In casi simili non si frena mai, è un dogma, un codice inscritto nel dna; ai più deboli, che però sono guardati con un certo disprezzo, è tutt’al più consentito sbandare, facendo lo slalom tra i capretti che i bambini trattengono sulla strada nella speranza che qualcuno li metta sotto. E’ il solo modo che conoscono per assicurarsi un piatto di carne la sera e, magari, qualche soldo di riparazione.

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