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Kimberley affonda a Ginevra

copertinaaprile2007jpg.jpgRue du Grand Lancy 6, La Praille. Siamo nella zona industriale di Ginevra. Da un lato l’aerogare, dall’altro il piccolo quartiere residenziale di Carouge. In un imponente palazzone grigio-bianco di quattro piani ha sede la Società anonima dei porti franchi e depositi di Ginevra. Sulla sinistra, 140mila metri quadri di magazzini, casseforti, container, cantine, uffici. Una superficie pari a circa 22 campi da calcio.

Una vera e propria base off-shore nel bel mezzo dell’Europa, un’enclave magicamente al di sopra – o al di sotto – delle leggi, da cui transitano ogni anno, indisturbati, diamanti grezzi per un valore che supera i 3 miliardi di franchi svizzeri (circa 2 miliardi di euro).

Districare la fitta ragnatela di agenzie intermediarie abitualmente incaricate di seguire le formalità doganali e vigilare sulle operazioni di import-export per conto di clienti, nella totalità dei casi protetti dalla discrezione più assoluta, è impresa ardua, quando non del tutto impossibile. Le parole d’ordine della casa sono “riservatezza”, “discrezione”, “anonimato”, “fiducia”, privacy.

Di recente, perfino Anversa, capitale mondiale della lavorazione e del commercio di diamanti, ha criticato le maglie larghe dei porti franchi di Ginevra e Zurigo. Dal Belgio passano, infatti, l’80% dei diamanti grezzi e il 50% di quelli tagliati sul pianeta, per un giro di 26 miliardi di euro l’anno.

Molti vengono dalla Svizzera e dai suoi porti. In base all’articolo 42 della legge federale sulle dogane, si tratta, a tutti gli effetti, di zone extra-territoriali in cui le merci, per lo più beni di lusso, possono essere stoccate indefinitamente, disimballate, divise, riconfezionate e spedite a piacimento, sfuggendo, di fatto, a qualsiasi ispezione.

«Temporanea sospensione di leggi e tasse», la chiamano i dirigenti della società. No man’s land, per intenderci. Il diamante che passa per il porto franco acquista una sorta di “passaporto svizzero”, perdendo, quindi, la memoria: i documenti che ne attestano la provenienza vengono annullati e nuovi colli, contenenti diamanti di diversa origine, ripartono oltre confine, principalmente verso Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Libano o Israele. Nessuno si domanderà più da dove arrivano.

Oasi intoccabili
L’esistenza di simili “oasi” sovra o extra doganali, che neanche gli accordi bilaterali hanno per ora avuto il potere di scalfire, ha sollevato nel tempo più di un’obiezione. Che reali possibilità di applicazione ha, di fronte ai porti franchi, il sistema di certificazione e controllo di gemme grezze, noto come Processo di Kimberley? Processo approvato nel gennaio del 2003 dal World Diamond Council e da circa 71 governi per ostacolare la vendita dei “diamanti insanguinati”, cioè estratti in zone di guerra.

Le opinioni discordano. La direzione dei porti franchi sembra piuttosto soddisfatta del sistema. «Tanto l’ingresso quanto l’uscita dei diamanti grezzi dai depositi è strettamente vincolata alla presentazione di un certificato d’origine, numerato e debitamente rilasciato dalla Segreteria di stato (Seco)», spiega Yves Bonnier, direttore della Valimpex S.A. e cliente dei porti franchi di Ginevra.

Il movimento (in gergo, il transito) delle gemme grezze verso e dall’esterno viene, dunque, scrupolosamente monitorato. Eppure, a Berna i funzionari dell’Amministrazione federale delle dogane (Afd), che avrebbero il potere di sequestrare eventuali lotti di diamanti non in regola, ammettono che i “controlli”, a causa della cronica carenza di personale, sono, in realtà, «assai sporadici».

Tanto che non risulta alcuna anomalia dal 2003. Il fatto è che, se un occhio al numero del certificato di Kimberley è ormai routine, assai più rara è, invece, la verifica che il peso in carati dichiarato sul certificato corrisponda effettivamente a quello del collo in uscita, o che, a parità di carati, il valore di ciò che esce sia lo stesso di quello entrato. Insomma, spesso i conti non tornano.

«Nel 2004 e 2005», spiega il giornalista Gilles Labarthe, che sul transito di diamanti nei porti franchi ha recentemente svolto un’indagine approfondita, «a parità di carati, il valore dei diamanti grezzi dichiarati all’ingresso dei porti franchi è, inspiegabilmente, raddoppiato all’uscita, passando da 880 milioni di dollari a 1,6 miliardi nel 2004 e da 1,5 miliardi a 2,2 miliardi nel 2005».

Le denunce
Organizzazioni come Global Witness, Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno ripetutamente sollevato il problema del contrabbando e del riciclaggio nel circuito legale di diamanti grezzi provenienti da paesi sotto embargo, considerano, per parte loro, i porti franchi svizzeri «un pericoloso e tendenzialmente incontrollato centro di smistamento di diamanti di dubbia origine», che, tuttavia, non fa che aggiungersi alle altre possibili vie d’accesso al mercato diamantifero.

Sempre più spesso, infatti, paesi come il Sudafrica e la Svizzera eludono le sanzioni internazionali, facendo transitare il grosso delle partite di gemme grezze attraverso paradisi fiscali come Panama, le Bahamas o le Isole Vergini.

«Il Processo di Kimberley ha introdotto alcuni miglioramenti», nota il portavoce di Amnesty, senza troppi entusiasmi, «ma gli stati coinvolti nel commercio mondiale dei diamanti e l’industria del settore non fanno ancora abbastanza per sradicare completamente questo traffico».

Il 65% dei 130 milioni di carati che ogni anno girano il mondo proviene dall’Africa, dove i confini nazionali sono, per così dire, piuttosto porosi ed episodi di corruzione e favoreggiamento non infrequenti. L’ultimo in ordine di tempo è stato denunciato lo scorso ottobre in un rapporto delle Nazioni Unite, che ha accusato il Ghana – per altro firmatario del Processo di Kimberley – di essere attivo sul mercato dei diamanti provenienti dalla Costa d’Avorio, alimentando la guerra civile che, dal 2002, spacca il paese in due.

Né va dimenticato che, quando si parla delle regole e certificazioni introdotte con gli accordi siglati a Kimberley, s’intende, in realtà, un meccanismo di autocontrollo volontario e interno, facilmente falsificabile e che lascia spazio a numerose scappatoie. Come, del resto, dimostra l’ultimo rapporto di Global Witness sulle gioiellerie americane e inglesi, intitolato Déjà vu: la metà delle case interpellate dall’organizzazione, a proposito delle garanzie adottate per controllare l’origine dei diamanti venduti, ha preferito non rilasciare dichiarazioni; il 56% ha ammesso di non aver alcuna politica.

Potere del consumatore
La palla passa, a questo punto, al consumatore, il solo ad avere il potere di esercitare una massa critica capace di fare pressione sull’offerta. Organizzazioni internazionali come Amnesty International e Global Witness ne sono convinte e hanno persino ideato una Guida all’acquisto per chi si appresta a comperare un diamante: una semplice lista di domande da porre all’orefice, tanto per togliersi il dubbio. Si va dalla richiesta della certificazione alla sottoscrizione di un codice di condotta conflict-free.

«Sulla 47ª, a New York, tuttavia, è ancora possibile presentarsi con i diamanti in tasca e venderli senza che nessuno faccia domande sulla loro provenienza», racconta Kadir Van Lohuizen, un fotografo olandese che per due anni ha seguito la rotta dei diamanti, dalle miniere di Bakwa Bowa in Congo o di Bula in Angola alle città indiane, come Surat, uno dei più importanti centri al mondo per il taglio e la pulizia delle pietre, fino alle scintillanti vetrine della Grande Mela.

L’industria dei diamanti sta cambiando, spiegano gli esperti. I grandi cartelli degli anni Novanta (la De Beers davanti a tutti) lasciano il posto ai piccoli produttori – il Kimberley Diamond Group, la Trans Hex e la Gem Diamond – e il settore si fa più competitivo, agguerrito e dinamico, dunque, per certi versi, più sano. Buono a sapersi.

Ma la cautela è d’obbligo. La comparsa sul mercato di produttori più piccoli non è, infatti, necessariamente una garanzia di una gestione più trasparente. E il fatto che i diamanti siano sempre meno “insanguinati” non vuole automaticamente dire che siano più “etici”.

Reportage pubblicato sul numero 4 (2007) di «Nigrizia»

www.nigrizia.it/doc.asp?id=9325

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Commento

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  1. Certo che passare da questi argomenti ultra tosti ai vari singulti spaventevoli (traduzione libera di: swallowed hard) di imberbi mostriciattoli non deve essere facile…

    Cominiciate le nuove traduzioni?

  2. In effetti non è banale.
    Avere un interruttore aiuterebbe. Due ore giornalista impegnata (per Vita e Nigrizia). Due ore giornalista radical chic (per Diario, ovviamente). Una mezzo’ora per i deliri nostalgici della rubrica della Stampa. Un pomeriggio in mezzo a mostri spaventevoli e bambini spaventati che dialogano in una lingua a volte incomprensibile…
    Ma l’interruttore non c’è. E tocca inventarselo.
    Donde l’elegante schizofrenia che tutti, chi più chi meno, mi riconoscono.
    aurgh! (prego associare al verso una delle smorfie di Calvin, possibilmente quella che fa davanti alla minestra…)
    i.