Volevo scrivere di un magnifico fine settimana nel Bel Paese, a camminare su sentieri a picco sul mare, tra ginestre fiorite e casette color ocra, con lo zaino in spalla. Volevo raccontare della marea di stranieri che vengono in Italia da tutto il mondo (ma soprattutto da Stati Uniti, Giappone, Francia e Spagna) e, faticando come muli sui dislivelli della Riviera, restano, loro malgrado, vittime come di un incantesimo, increduli alla vista di tanta bellezza concentrata in così poco spazio. Tra i monti e la ferrovia.
Volevo scrivere dell’italiano da treno, quella lingua, arcaica e bizzarra, che tra La Spezia e Genova Brignole sollecita i passeggeri tutti a “favorire le operazioni di controlleria” (!). E uno si sente subito in una carrozza ottocentesca.
Volevo scrivere di bruschette al lardo, acciughe al verde, totani fritti e trofie al pesto. E di scorci sul mare e lecceti ombrosi, da togliere il fiato. E del rumore del tempo che scricchiola sotto gli scarponi.
Volevo scrivere delle chiassose mademoiselles francesi in sandali che cercano di tradurre i versi di Montale sui muri di Monterosso, ma esitano perplesse sull’espressione “cavallo stramazzato”.
Volevo scrivere di tutto questo, con gioia e fierezza e un soffio di speranza per l’estate che si avvicina. Perché se è vero che gli emigrati tendono ad idealizzare il proprio Paese, è bello scoprire ogni tanto che quell’immagine ha un fondo di verità.
Volevo, ma oggi, in testa e negli occhi, ci sono soltanto una piazza terrorizzata, mucchi di scarpe insanguinate, cocci di vetro, zainetti calpestati e il rimbombo di odiose polemiche.