in Vivere altrove

La mia adolescenza migrante

Sono quindici anni che vivo al di là delle Alpi. Quindici anni. Un’adolescente. Un’adolescente dell’emigrazione. Non più un neonato che fatica a stare in piedi e si muove a tentoni, non più un bambino ignaro di tutto, che si pone mille domande sul mondo che lo circonda, ma un’adolescente. Determinata, idealista, irritabile, a tratti ancora profondamente insicura, e, in fin dei conti, ormai ben consapevole che quello intrapreso è un cammino irreversibile di distanziamento e autonomia.

Nella mia adolescenza migrante assisto con interesse e passione al dibattito politico dell’Esagono, ma non voto ancora. So esprimere con chiarezza ed efficacia il mio pensiero, ma faccio ancora scena muta di fronte al meccanico. Ho punti di riferimento, persone di riferimento, ma non sono tanti, e chissà poi se sono saldi. La prova del tempo, in fondo, è appena iniziata. Mi capita di scoprire costantemente musicisti, libri, voci alla radio, artisti che sono popolari per tutti, ma non per me. Pezzi di storia che ignoravo completamente, malgrado abbia una laurea in Storia. È un po’ come se ascoltassi tutto per la prima volta, leggessi tutto per la prima volta. Una fortuna, diranno alcuni. Sì certo, ma insomma.

La mia adolescenza migrante fa a pugni con un’età reale, quella, più che adulta, da cui si richiederebbe maturità, riflessione, saggezza. La capacità di unire i puntini tra loro, ecco, e di farlo senza pensarci troppo per via di una dimestichezza ormai acquisita con le cose. E invece io ci devo ancora pensare. Ai puntini, alla linea che li unisce, alla traiettoria di questa linea, perché quindici anni di vita, qui in Francia, non sono poi tanti.

Pubblicato su La Stampa il 26/11/2021

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